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SCOMPORRE E RICOMPORRE IL MONDO CON L’INFORMATICA (II)

Condivido con i lettori di IWP il pensiero di Marco Pozzi (*)

Cosa succede con un nuovo alfabeto

Peter Burke in Storia sociale della conoscenza propone una storia dei concetti e delle dinamiche senza legarsi ai nomi degli autori. Fin da subito pone una distinzione fra la conoscenza e l’informazione, “il «sapere come» dal «sapere che», ciò che è esplicito da ciò che viene dato per scontato. Per convenienza questo libro userà «informazione» per riferirsi a quanto è relativamente «crudo», specifico e pratico, mentre «conoscenza» denoterà quanto è stato «cotto», elaborato o sistematizzato dal pensiero.” (Burke, 2002, 23)

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Nell’incessante contaminazione dei saperi, che continuamente s’istituzionalizzano o avanzano in solitudine, si radicano o si dissolvono, è sempre difficile tracciarne dei confini, alzare steccati con precise definizioni. Così oggi si stenta a trovare una collocazione stabile alle cosiddette Digital Humanities (Vivarelli, 2022) – tradotte con “Informatica Umanistica” o “Umanistica Digitale” – che vengono definite nel 2009 col The Digital Humanities Manifesto 2.0 scritto a più mani dai partecipanti al Mellon Seminar della UCLA: “L’Umanistica Digitale non è un ambito unificato, ma una serie di pratiche convergenti che esplorano un universo in cui: a) la stampa non rappresenta più il medium esclusivo o normativo nel quale la conoscenza viene prodotta o disseminata: piuttosto, la stampa viene assorbita in nuove configurazioni multimediali; b) gli strumenti, le tecniche e i media digitali hanno profondamente trasformato la produzione e la disseminazione della conoscenza in ambito artistico, umanistico e sociale. L’Umanistica Digitale si propone di svolgere un ruolo inaugurale rispetto a un mondo in cui le università non sono più gli unici produttori, dispensatori e disseminatori della conoscenza e della cultura. Al contrario esse sono chiamate: a plasmare modelli digitali di discorsi accademici per le nuove, emergenti sfere pubbliche della nostra era (il web, la blogosfera, le librerie digitali etc.); a definire i criteri di eccellenza e di innovazione in questi domini e a facilitare la formazione di reti di cultura nella produzione, scambio e disseminazione di conoscenza che sono, al tempo stesso, globali e locali” (The Digital Humanities Manifesto 2.0, 2009).

Dopo aver frantumato il mondo in molteplici “0” e “1” sparpagliati in illimitati datacenter sull’intero pianeta, le ricerche sul Web rispondono a un’esigenza di ricostruire una unità verso la quale convergere, attraverso la quale comprendere.

Navigando sul Web – “navigare”, si usa il verbo delle migrazioni, della lunga Odissea per tornare a casa – ci si trova come in un oceano di dati e conseguenti informazioni. Lì ci si muove per rotte stabilite, secondo ciò che si vuole trovare come verso un porto a cui si vuole attraccare, ma anche secondo connessioni che mai s’avrebbe previsto prima. Berners-Lee stesso scrive: “Il Web è nato come risposta a una sfida aperta, nel mescolarsi di influenze, idee e conclusioni di origine diverse, fino a coagulare un concetto nuovo grazie alla mediazione meravigliosa della mente umana. È stato un processo di aggiunte continue, non la soluzione lineare a un problema definito dopo l’altro.” (Berners-Lee, 2001, 16-17)

Nei tempi passati le città sono i centri del sapere, dove risiedono biblioteche e accademie, collezioni e università; oggi i dati sono contenuti nei datacenter sparsi per il pianeta e da lì la conoscenza s’irradia in qualunque luogo in cui esista una connessione Internet. La conoscenza diventa l’arché originario dell’Essere.

Tutto accade nel Web.

Per chi suona la campana

Stéphane Mallarmé, durante la sua vita, pensa di scrivere un Libro totale ispirato alle grandi opere degli alchimisti. Avrebbe cominciato a lavorarci verso il 1873, a meditarvi tra il 1873 e il 1885; poi c’è un rallentamento; ci si rimette nel 1892-1893; nel 1894, con più tempo a diposizione, vi si dedica le mattina. In conclusione ci resta un manoscritto di duecento fogli: non il Libro, ma pensieri sul Libro (Barthes, 2010, 296).

Se Mallarmé non riesce a scrivere il libro, il Web riesce a realizzarlo. Col Web s’è ritornati all’alchimia, che dentro del disordine, dentro al “magma fuso e incandescente” (Jung, 2008, cap. VI “A confronto con l’inconscio”, 243-244) come lo chiama Jung, cerca di cristallizzarne una struttura comprensibile ed abitabile. Gli archetipi, su cui dalle origini lontane si poggia l’inconscio umano, sono “un invisibile reticolo cristallino, che modella i pensieri come un vero reticolo cristallino rifrange la luce” (Miller, 2014, 32). E dentro un tale reticolo che ricorda l’odierna Rete – il Web – ci si chiede da quale alambicco si distillerà il nuovo oro? Il nuovo elisir che di tanti dati ne distillerà una combinazione che possa durare nel tempo, aspirando a un miraggio d’immortalità nella memoria degli umani?

Il sentiero che s’aggroviglia passa attraverso innumerevoli significati, attraverso i quali si genera il racconto, l’esposizione che ci tramanda anche conoscenza. Ricorda un interessante passo del Faust di Goethe – a lungo dedito all’alchimia – che, citato da Sigmund Freud per spiegare la nascita dei sogni, sembra adattarsi perfettamente alla nostra discussione su come creare nuovi significati attraverso i dati:

  • Migliaia di fili mette in moto un pedale,
  • le spole volano di qua e di là,
  • invisibili i fili si tessono insieme
  • e un colpo solo crea mille collegamenti.

(Goethe, 2009, parte prima seconda scena dello studio, 147)

In questo senso gli elementi prima che si combinano nel Web, ogni dato e ogni metadato che con le ricerche si combinano mettendosi in relazioni coi link, vanno a formare la nostra identità. Ogni utente del Web è soggetto che ricrea nuovi prodotti, al tempo stesso oggetto che da questi nuovi prodotti è inevitabilmente influenzato, a piccoli colpetti, sotto influsso di quanti di conoscenza come per l’effetto di non misurabile energia.

Ad ogni piccolo passo come ad ogni piccolo click, un infinitesimo di conoscenza entra dentro chi cerca, costruendoci dentro un presidio consistente, da cui partire per altre ricerche, accrescendo il territorio conquistato in una specie di far west interiore. Il territorio edificato è l’identità.

E una volta costruita l’identità individuale è possibile scorgere, con un metodo aggregato, a volo d’aquila, gli effetti collettivi, nella sua portata visceralmente sociale. Nel diciassettesimo fra i sermoni Devotions upon Emergent Occasions, scritti nel 1623 dal poeta John Donne – che incontra Keplero nel 1619 – intorno alle sofferenze della fede cristiana, si legge: “Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto; se una zolla viene spazzata via dal mare, l’Europa ne è diminuita, come se le fosse rapito un promontorio, come fosse la casa dei tuoi amici, o la tua; la morte di ogni uomo mi diminuisce, perché io sono legato a tutto il genere umano. E dunque non andare a chiedere per chi suona la campana; suona per te.” (Brook, 2015, 232)

Nella vita ogni essere umano è legato a tutti gli altri esseri umani, da cui assorbe continuamente; noi siamo tutti gli attimi vissuti, le parole che abbiamo scambiato, lo sguardo di nostro nonno su di noi quando non sapevamo ancora parlare, il litigio con un passante in coda, tutti gli incontri nelle stazioni, nelle piazze, nei festoni, tutte le parole assorbite, tutti i colori respirati, tutti i sentimenti scambiati. E anche tutte le mail scambiate, tutti i link aperti, i siti visitati, i meme inoltrati.

Come ciascuno è legato a tutti gli altri nella vita, altrettanto ciascuno lo è in quella sorta di riproduzione del mondo che è il Web.

La sapienza dei dati

Questo è dunque il contesto storico in cui si inserisce Mèmora e l’Ecosistema dei beni culturali di cui fa parte, che proprio nella direzione indicata dalla Convenzione di Faro (Consiglio d’Europa, 2011) onora le sue responsabilità di servizio della Pubblica Amministrazione: gestire e promuovere il patrimonio culturale quale “fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività”, per “lo sviluppo di una società pacifica e stabile”, secondo le definizioni della convenzione.

Diventa importante analizzare la proprietà dei dati del sistema informativo, sapere dove sono archiviati gli “0” e gli “1” in cui sono traslitterati – digitalizzati – i beni presenti nel mondo. Il progetto della Regione Piemonte è realizzato, come molti altri software nella Pubblica Amministrazione piemontese, dal CSI Piemonte, che è un consorzio formato attualmente da oltre cento Enti pubblici.

Con quest’ordinamento giuridico le decisioni non sono prese da multinazionali (Frenkel, Kang, 2021) ma dai rappresentanti delle istituzioni, i quali nella maggior parte dei casi vengono eletti dai cittadini. Gli obiettivi, pur dentro la sostenibilità economica, non sono commerciali, è il progetto sociale complessivo ad essere rilevante: un progetto concluso con successo, ad esempio, non si ferma all’applicazione nel capoluogo di regione, o ai capoluoghi, dove disponibilità e visibilità sono maggiori, ma può diffondersi sull’intero territorio, su una infrastruttura pubblica, fino al paesi più lontani o appartati nelle periferie montane, così che il territorio si sviluppi in maniera più omogenea ed equa. Collaborando si possono eliminare sprechi e ridondanze, identificando i comuni bisogni della società in un dato momento e trovando soluzioni comuni che contribuiscano alla coesione delle svariate realtà sul territorio.

Il sapere si ridistribuisce e i singoli ne usufruiscono per affrontare il mondo in piena consapevolezza di sé, dei propri diritti e doveri. Un wikipedia civico, radicalmente sociale, intorno a una conoscenza che nasce dal patrimonio culturale collettivo in archivi, musei, giornali, biblioteche. E che in futuro includerà quello che sono molteplici ambienti di realtà aumentate o realtà virtuale, racchiusi sbrigativamente sotto l’evocativo nome “Metaverso” (Osservatorio Metaverso, 2022), usato per la prima volta nel romanzo di fantascienza Snow Crash, scritto da Neal Stephenson nel 1992 (Stephenson, 2007).

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In questo senso il sistema informativo dell’Ecosistema dei beni culturali impatta anche sul fenomeno chiamato Information literacy, definito da AGID “insieme di abilità, competenze, conoscenze e attitudini che portano il singolo a maturare nel tempo, durante tutto l’arco della vita, un rapporto complesso e diversificato con le fonti informative: i documenti e le informazioni in esso contenuti” (AGID, 2014, 153). Così, accedere al patrimonio culturale della propria comunità diventa un mezzo importante per imparare. “Literacy” può tradursi come “alfabetizzazione”; e un nuovo alfabeto, per quanto inclusivo sia, inevitabilmente esclude chi non lo conosce. Diventa allora fondamentale sapersi muovere nel sistema, capaci di affrontare le informazioni, per non diventarne succubi (Lana, 2020).

E qui ci si lega indissolubilmente al concetto di democrazia, poiché, solo se l’informazione è libera e accessibile a tutti, e tutti ne sanno trarne uno stimolo e un mezzo verso la conoscenza, il cittadino potrà, saprà e vorrà decidere, agire e votare in libertà e consapevolezza.

La fondazione dei nuovi principi

Negli anni del dopoguerra la fantascienza immagina una dimensione infinita da conquistare nello spazio interplanetario. Oggi quel futuro non si è verificato: la dimensione infinita da conquistare, forse proprio perché non si è verificata quella fisica dello spazio, è diventata virtuale. In questa dimensione l’economia persegue l’ideale crescita infinita, perpetuando la propria essenza che sul pianeta i limiti della Natura stanno facendo traballare.

Ciò che è più facilmente osservabile è che il Web ha proposto una struttura inedita rispetto al passato: concorrenza perfetta e al tempo stesso perfetti monopoli. Le aziende Google, Facebook, Apple, Ebay, Amazon, sono i più grandi monopoli mai esistiti; tuttavia, come mai prima, i loro prodotti consentono partecipazione diffusa e paritaria (Zuboff, 2019). È stimolante e utile pensare che questa duplice natura, moderna e rischiosa, possa essere smorzata tramite una politica pubblica coraggiosa e consapevole, che non può limitarsi soltanto a un livello locale, o regionale, ma che necessariamente deve coinvolgersi a un livello più alto (Giacomini, Buriani, 2022).

In questo momento l’Europa non ha una lingua sua; formalmente e informalmente si adotta l’inglese, il quale però, dopo la Brexit, non è lingua ufficiale di nessuno dei paesi membri (eccetto per l’Irlanda, per cui rappresenta una lingua legata all’invasione inglese). Impossibile sarebbe adottare il latino, che probabilmente rappresenta l’alternativa storicamente più coerente; ma forse con l’alfabeto “0” e “1” s’è ancora in tempo per definire un linguaggio autonomo, che corrisponda all’identità sociale della cittadinanza, e che in qualche modo servirebbe a verbalizzare il caos del mondo, a cui il Web corrisponde.

Già il tema dei dati è incluso nella Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea, approvata dal Parlamento europeo nel novembre del 2000, dove all’Articolo 8 si stabilisce:

“1. Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano.

2. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica.

3. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente.” (European Parlament, 2000)

Dalla firma del trattato di Lisbona nel 2007 la protezione dei dati personali diventa un diritto fondamentale ai sensi del diritto dell’UE, cioè si rafforza una base giuridica specifica per adottare norme legislative a protezione di questo diritto fondamentale. Il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), adottato nel 2016 ed entrato in vigore nel maggio 2018, fornisce le regole a cui imprese ed istituzioni devono adeguarsi, unificando la frammentazione nei vari sistemi nazionali, processo che si consolida a dicembre 2022 quando Parlamento europeo, Consiglio e Commissione proclamano la Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali per il decennio digitale, con l’obiettivo di integrare “riferimenti alla sovranità digitale in modo aperto, al rispetto dei diritti fondamentali, allo Stato di diritto e alla democrazia, all’inclusione, all’accessibilità, all’uguaglianza, alla sostenibilità, alla resilienza, alla sicurezza, al miglioramento della qualità della vita, alla disponibilità di servizi e al rispetto dei diritti e delle aspirazioni di ognuno”(Consiglio Europeo, 2022); e processo che si allarga ulteriormente quando, sempre a dicembre 2022, la Commissione europea dà l’avvio al processo dell’accordo fra Unione Europea e Stati Uniti per una legislazione che obblighi grandi multinazionali a particolari trattamenti dei dati per tutelare i cittadini europei, limitandone l’accesso alle agenzie di intelligence statunitensi (European Commission, 2022).

Lo scopo sempre più non è la tutela della privacy fine a sé stessa, ma è evitare discriminazioni che potenzialmente possano ledere diritti fondamentali. Diventa così fondamentale, caso per caso, la valutazione d’impatto sulla protezione del dati (DPIA), cioè valutare quanto incide un dato del proprietario dei suoi diritti fondamenti, per evitare a priori abusi e discriminazioni; si tratta di un approccio sistematico che consente di comprendere i profili di rischio, consentendo al titolare del trattamento di valutare, a priori, l’impatto nella protezione dei dati personali e l’adeguatezza delle misure di sicurezza tecniche e organizzative che si possono adottare.

Una lingua europea

Si ha l’impressione che le approvazioni di tali direttive e regolamenti in ambito informatico procedano più velocemente rispetto a decisioni negli ambiti economici, fiscali, sociali, militari; forse proprio l’informatica potrebbe nel tempo rappresentare un raccoglitore d’istanze comuni fra gli stati nazionali e i popoli, che diventi collante per un’identità europea, da sempre così cangiante e contradditoria. L’Europa difficilmente può essere ridotta a “un continente”, a “una divisione geografica del globo”, né a “una formazione politica definita, riconosciuta, organizzata, dotata di istituzioni fisse e permanenti”, quanto piuttosto la si può definire “una unità storica, una incontestabile unità storica […] che raggruppa un insieme di paesi, di società, di civiltà e di popoli che abitano questi paesi, che compongono queste società, che incarnano queste civiltà” (Febvre, 1999, 3-4): così la definisce Lucien Febvre, compagno di Marc Bloch nell’avventura della rivista “Annales d’histoire économique et sociale, in un corso tenuto al Collège de France nell’anno accademico 1944-45.

Dentro questo movimento, nel movimento del Web, il percorso che attraverso l’alfabeto di “0” e “1” potrebbe servire a verbalizzare il caos del mondo in questa “unità storica” chiamata Europa, definendone un’identità condivisa da stati nazionali e popoli, che la pubblic history non possa che confermare, e che a livello geopolitico planetario compensi le debolezze politiche e militari.

Come in un percorso di psicanalisi l’individuo può trovare le parole attingendo al caos interiore, così, mediante un linguaggio informatico proprio, attingendo all’inconscio del Web e d’ogni Intelligenza Artificiale, forse si riuscirà a dare forma al nostro inconscio collettivo, traendone qualche beneficio, oltre che a realizzare quell’anelito vago comunemente chiamato “sviluppo sostenibile, che nel 1987 il rapporto Brundtland – Gro Harlem Brundtland è il presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED) istituita nel 1983 – definisce come “quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.” (United Nations, 1987)

Tutto ciò si raccorda bene alla Convenzione di Faro (Portogallo), sottoscritta nel 2005 dai membri del Consiglio d’Europa, la quale introduce il concetto di “comunità di eredità”, cioè “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.” La convenzione di Faro riflette sul fatto che conservare i beni culturali migliora la qualità della vita della comunità che possiede i beni; promuove la comprensione del patrimonio e le relazioni con la comunità, aumentando la coesione fra i cittadini e valorizzandone la singola responsabilità.

L’art. 14 è poi specificatamente dedicato all’”Eredità culturale e società dell’informazione”: “Le Parti si impegnano a sviluppare l’utilizzo delle tecnologie digitali per migliorare l’accesso all’eredità culturale e ai benefici che ne derivano:

a. potenziando le iniziative che promuovano la qualità dei contenuti e si impegnano a tutelare la diversità linguistica e culturale nella società dell’informazione;

b. favorendo standard internazionali per lo studio, la conservazione, la valorizzazione e la protezione dell’eredità culturale, combattendo nel contempo il traffico illecito dei beni culturali;

c. adoperandosi per abbattere gli ostacoli che limitano l’accesso alle informazioni sull’eredità culturale, specialmente a fini educativi, proteggendo nel contempo i diritti di proprietà intellettuale;

d. riconoscendo che la creazione di contenuti digitali relativi all’eredità culturale non dovrebbe pregiudicare la conservazione dell’eredità culturale attuale.”

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La Convenzione di Faro sintetizza la dipendenza fra patrimonio culturale collettivo e benessere sociale. Tuttavia, se il Web può aiutare ad usufruire del patrimonio culturale, aggiornando il ruolo d’un nuova public history, che, secondo la convenzione, può accrescere il benessere, al tempo stesso può essere causa della distruzione delle comunità, fatto che Il secolo della solitudine di Noreena Hertz documenta vividamente: “a un colloquio di lavoro viene valutata da un algoritmo; un pomeriggio fa shopping con un’«amica del cuore» affittata tramite un servizio online; di sera si trova a sfiorare la pelle artificiale di un robot progettato per essere il suo animale da compagnia…” (Hertz, 2021, quarta di copertina).

Tra Faro e anti-Faro, la nuova lingua europea che stata nascendo è fatta di infrastrutture, leggi, formazione (Jarre, Bottino, 2018), pianificazione tecnologiche (Frick, 2016; Marchis, 2021; Marchis, 2021a) e sociale (Economia digitale, 2018), gestione dei dati, cybersecurity, impatto psicologico sugli individui, consumi energetici e impatto ambientale (Crawford, 2021; Pozzi, 2023), smaltimento dei rifiuti, diritto alla riparazione (Open repair alliancehttps://openrepair.org; The restart projecthttps://therestartproject.org/about) etc… tutto quanto riguarda ogni fase del settore. Molti di questi temi sono stati trattati nel convegno on-line Digital Ethics Forum nel 2020, organizzato dall’associazione Sloweb (Balbo, Jarre, 2020). Ci si potrebbe anche chiedere se sia possibile realizzare un Metaverso pubblico, senza passare da piattaforme multinazionali, o se sia possibile l’affermazione di un motore di ricerca europeo, o di un social network europeo, per il cittadino europeo che rimarrebbe proprietario dei propri dati.

Solo così si potrà davvero toccare il concetto di benessere sociale promosso dalla Convenzione di Faro, e renderlo concreto, vivo, compiuto: una società di fiducia reciproca, di aiuto, di collaborazione: dove non ci si senta soli.

Conclusioni fatte di caos e sogno

L’articolo ha evidenziato l’impatto che può avere l’informatica sull’identità dell’Europa.

Il sistema informatico è solo una fra le dimensioni in cui studiare il processo, poiché non si limita al mero funzionamento di un sistema tecnico, quanto piuttosto include il propagarsi nella società d’un’onda di effetti materiali e immateriali, senza che se ne allestisca intorno una dose minima di necessaria consapevolezza.

Una società non deve – non può – muoversi non in balìa del caso o di scelte al di fuori di sé, per rincorrere l’ultimo aggiornamento tecnologico. Così come un individuo, prendendo consapevolezza del proprio vissuto, la società può maturare e diventar “padrone della propria vita”, secondo un’espressione ben diffusa. È bello citare il finale dell’introduzione di Grammatica della fantasia di Gianni Rodari: “«Tutti gli usi della parola a tutti», mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessun sia schiavo”. (Rodari, 1997, 14)

E allora, nel XXI secolo, non c’è da desiderare che a governare sia un aristocrazia di filosofi o scienziati, ma forse che, oltre all’Information literacy, con una istruzione diffusa, la comunità possa sempre più alzare il proprio livello di conoscenza, affinché l’aristocrazia tenda a coincidere con la collettività intera, uscendo dal cerchio degli specialisti del sapere come una clerisy, come li definisce Peter Burke, cioè “gruppi sociali i cui membri si considerano «uomini di sapere» (docti, eruditi, savants, Gelehrten) o «uomini di lettere» (literati, hommes de lettres)”. (Burke, 2002, 33)

Si raccorda al The Digital Humanities Manifesto 2.0, che invoca: “Il digitale è l’ambito dell’open source, delle risorse aperte. Chiunque tenti di chiudere questo spazio deve essere riconosciuto per quello che è: un nemico. Il nucleo dell’Umanistica Digitale è utopico ed è figlio legittimo di un’evoluzione genealogica che affonda le sue radici ideologiche nella controcultura – e nelle curiose interrelazioni della cybercultura degli anni Sessanta e Settanta. Per questo motivo, essa afferma i valori dell’Aperto, dell’Infinito, dell’Espansivo, dell’Università/Museo/Archivio/Biblioteca senza pareti, la democratizzazione della cultura”. (The Digital Humanities Manifesto 2.0, 2009)

Questa è l’utopia ultima, prima della quale altre gradazioni sono più realistiche, che comunque non dimenticano il benessere collettivo indicato dalla Convenzione di Faro e i principi stabiliti dalle Dichiarazioni europee. La frase di John Donne – “se una zolla viene spazzata via dal mare, l’Europa ne è diminuita” – esprime visivamente quanto siamo tutti legati gli uni agli altri.

Si possono assumere, come augurio, le parole di Tim Barners-Lee verso la fine del suo L’architettura del nuovo web: “Il nuovo Web deve permettermi di imparare superando i confini. Deve aiutarmi a organizzare i contratti nel cervello perché io possa capire quelli di un’altra persona. Deve mettermi in grado di mantenere le cornici concettuali che già possiedo ponendole in relazione con le nuove. Nel frattempo, dovremo abituarci a considerare le discussioni e le sfide necessarie in questo processo come comunicazione più che come polemica”. (Berners-Lee, 2001, 179)

Così ci auguriamo sia per Mèmora e l’Ecosistema dei Beni culturali, e per ogni progetto simile che a livello locale, nazionale, internazionale affronti il tema della gestione del patrimonio culturale: che s’inserisca proprio qui, dove avviene il passaggio da gente a cittadini.

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(*) Laprimaparte di questo articolo è al link:

https://www.internationalwebpost.org/contents/SCOMPORRE_E_RICOMPORRE_IL_MONDO_CON_L%E2%80%99INFORMATICA_29497.html#.Y_jSuXbMKUk

Per la bibliografia dell’articolo e maggiori approfondimenti sulla tematica: DiCultHer https://www.diculther.it/rivista/, la meta-rivista open access per promuovere l’educazione alla Cultura Digitale e le ricerche sul digitale applicato al patrimonio culturale.

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Data:

25 Febbraio 2023