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“SHADY HABASH HA INGERITO DISINFETTANTE”

Sabato, tarda mattinata, notizia riportata da tutti i giornali d’Egitto: Shady Habash è morto. Pochi giorni più tardi, precisamente ieri, arriva una prima dichiarazione: pare abbia ingerito una miscela di acqua e alcol per la sanificazione antivirus. Per chi non dovesse conoscere questa vicenda, un piccolo riepilogo: Shady Habash, fotografo e videomaker, era in custodia cautelare da due anni dopo aver diretto un video musicale che scherniva i primi quattro anni di governo del presidente egiziano Adbel Fattah al-Sisi alla vigilia delle elezioni.

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Dopo pochi giorni dall’uscita del brano, diventato subito virale, Habash venne arrestato insieme all’autore del testo e al social media manager dell’interprete. Al momento del decesso era ancora in attesa di giudizio, dopo essere comparso numerose volte davanti al procuratore, che ogni quarantacinque giorni prorogava l’arresto, senza averlo però mai chiamato a rispondere delle pesanti accuse che pendevano sulla sua testa. Il cantante, nel mentre, è in esilio in Svezia. Per il governo l’affronto è stato troppo grande e qualcuno doveva per forza pagare.

A questo punto, emergono più chiari che mai i punti “oscuri” della vicenda. Secondo la legge egiziana un accusato non può rimanere in carcere senza processo per più di due anni. Per Shady Habash i ventiquattro mesi erano scaduti il primo marzo. Per di più, stando a quanto riferito dal suo avvocato, pare che fosse stato rispedito in cella anziché ricevere cure dopo essersi sentito male. Caso giudiziario numero 480 del carcere di Tora, il Cairo: la storia termina con un decesso. L’altro elemento che non quadra è la vera causa della dipartita: fonti locali riportano che Habash soffrisse di episodi depressivi, mai documentati. La somma dei fattori restituisce un solo risultato: molto probabilmente non c’è mai stata l’intenzione di liberare il giovane.

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Le analogie con altri casi noti alle cronache (come quello che vede coinvolto Patrick Zaki, l’ultimo in ordine cronologico) sono sotto gli occhi di tutti. Pare che, in Egitto, gli oppositori politici siano accomunati da un atroce destino. Non a caso, la notizia del decesso del videomaker ha avuto forte risonanza nel paese: ad insospettire è proprio il fatto che, secondo la legge, un detenuto in attesa di processo possa non essere rilasciato solo se destinato alla pena di morte (eventualità da escludere, naturalmente, per la vicenda in esame). Anche l’autore del testo, condannato a tre anni di detenzione, teme per la sua vita e affida la sua richiesta di aiuto alla seguente lettera.

Se leggerai questa lettera, di qualunque genere tu sia… ho 28 anni e sono stato arrestato perché scrivo poesie. Sono stato messo davanti a giudici che dovrebbero occuparsi di giudicare terroristi, ladri, stupratori e non scrittori, poeti e drammaturghi. Sono felice nello scrivere questa lettera e nell’immaginare che verrà letta da un umano. Vi scrivo da una prigione che è casa e da un paese divenuto prigione. All’uomo che leggerà vorrei dire che ho bisogno di qualcuno che mi ricordi nelle sue preghiere e nelle sue invocazioni. Oggi vi scrivo di un sogno. Quanti sogni sono nati per morire tra queste sbarre?”.

La mente torna immediatamente al caso di Giulio Regeni. L’incubo è stato già vissuto una volta. Recita un vecchio adagio: “una parola può ferire più di un’arma”. La parola in questione è una legge non rispettata.

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Data:

6 Maggio 2020