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SOSTENERE LA VITA, PRODURRE LA MORTE

La maggior parte degli episodi di violenza diretta sono commessi da uomini. Il ricercatore di pace Johan Galtung li stima con una percentuale del 95%. Fatti violenti che si esercitano in modo specifico contro le donne, contro altri uomini e anche contro la natura. Questo è il punto di partenza che dà origine a questa riflessione. A partire dalla constatazione del protagonismo maggioritario degli uomini nell’esercizio della violenza diretta e/o strutturale, ci chiediamo se questo significa che essi sono più violenti di esse e se le relazioni tra gli uni e le altre giocano qualche ruolo per il mantenimento di questo stato di cose. Ciò che segue mostra alcune concezioni socio-culturali, scientifiche e di socializzazione che, a mio parere, alimentano il differente comportamento dei sessi davanti alla violenza.

La violenza contro le donne, base della violenza.

La violenza si presenta come una grande rete a cui donne e uomini sono aggrappati. Tra tutti abbiamo tessuto una folta ragnatela nella quale ci sono molti fili intrecciati che la sostengono. Gli uomini che hanno esercitato il potere hanno una maggiore responsabilità, ma anche le donne che assumono certi atteggiamenti riproducono lo stato delle cose, soprattutto quando agiscono di riflesso e mostrano la loro ammirazione davanti alle azioni eroiche degli uomini. Come scrisse Virginia Woolf, le donne, per lunghi secoli “sono state dei riflessi dotati del magico e delizioso potere di riflettere una figura dell’uomo di dimensione doppia di quella naturale” e ora sappiamo come “i riflessi sono imprescindibili da ogni azione violenta o eroica”. Inserite in questa rete, le donne non sono prive di qualsiasi menda, né esenti da responsabilità di fronte alla permanenza della violenza. Non tutti gli uomini sono perpetratori di violenza. Non tutte le donne sono vittime. Spesso, neanche quelle che hanno sofferto la violenza si reputano vittime. Esiste una gran forza che circola tra le donne. Malgrado non si collochino le donne nell’innocenza, ritengo che la violenza che si esercita nel mondo ha molto che vedere con la violenza che esercitano gli uomini contro le donne, e che questa è il modello paradigmatico di violenza, la base dove si colloca il resto.

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La svalutazione delle donne nella cultura e nella costruzione dell’identità degli uomini è un fattore cruciale per il mantenimento e la riproduzione della violenza in generale. Assume il carattere di modello per le seguenti ragioni: la violenza degli uomini contro le donne è il tipo di violenza più diffusa, quindi attraversa tutti i luoghi del mondo, ogni posizione sociale e ogni cultura; si trova incitata nella vita di ogni giorno e accompagna altre violenze, giungendo fino a estreme drammaticità nelle guerre dove le aggressioni alle donne, soprattutto le violazioni, aumentano e si utilizzano come arma specifica. Inoltre, e soprattutto, la donna è l’Altro più vicino che ha l’uomo, un Altro con cui deve stabilire relazioni di convivenza e da qui, come ogni relazione viva, di conflitto, un conflitto che, come qualsiasi altro, non ha motivo per cui essere risolto inesorabilmente in modo violento.

Secondo le teorie delle relazioni obiettabili, l’uomo, nato da una donna ed educato durante i suoi primi anni quasi esclusivamente da esse, si va individualizzando mediante un processo di separazione crescente e di rottura con la madre. A differenza della bambina, in questo processo di differenziazione della madre, il bambino si vedrà spinto, per esigenze della concezione stereotipata di ciò che significa essere uomo, non solo a separarsi ma a rifiutare per se stesso gli aspetti femminili. Con il tempo, nel rifiutarli, imparerà a valutarli, così come lo fanno la struttura sociale e i riferimenti culturali in cui si trova immerso. Per queste autrici, la responsabilità è quasi esclusivamente delle donne nell’educazione dei figli e figlie, la quale spinge verso la costruzione di un’autonomia e identità dell’uomo definite dalla separazione e dal rifiuto degli aspetti considerati femminili. La confusione dei sessi, la indifferenziazione sessuale pesa come una minaccia sul sentimento di identità. Alcuni etnologi e psicoanalisti concordano nell’affermare che questa fonte di afflizione pesa più sul bambino che sulla bambina, che gli uomini devono lottare più duramente delle donne per potersi differenziare dall’Altro e acquisire psicologicamente il suo sentimento di identità sessuale. Questo conflitto si rende visibile, in alcune società, nei rituali di inizio o di passaggio alla condizione di adulto il cui obiettivo fondamentale è di separare il bambino da sua madre e dal mondo delle donne ed inserirlo in quello degli uomini, un mondo in cui attraverso il dolore e la sofferenza verificherà la sua virilità. Questa separazione rituale ha le sembianze di una morte simbolica che riafferma l’ascendenza degli uomini sulle donne, la preminenza degli adulti sui giovani e il taglio tra il mondo degli uomini e quello delle donne. Il punto chiave è che, in una società patriarcale, il processo di differenziazione dei sessi avviene all’interno di uno schema gerarchico che colloca gli uomini in una posizione di potere. L’asimmetria e la gerarchia dei sessi sembra appoggiarsi, secondo certi indizi che affronteremo in seguito, oltre che sulla forza fisica, sul timore che genera la potenzialità posseduta dal corpo di una donna di ospitare la vita nel suo grembo. La vita è data dalle donne e dagli uomini, ma per un periodo di tempo dipende unicamente dal corpo femminile e dalla volontà della donna di portarla avanti. Gli uomini cercano di controllare questa capacità attraverso la cancellazione simbolica del suo significato e la dominazione delle donne in tutti gli aspetti della loro vita. Che il significato delle vite delle donne sia dato dal discorso maschile e che la scienza e la tecnologia, come vedremo in seguito, si appropriano delle metafore della nascita per riferirsi ad artefatti di morte, sono manifestazioni dell’intento di dominare e di annullare il simbolico femminile.

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In una società patriarcale, in un mondo che svaluta le donne, il timore di ciò che significa essere donna, dentro di sé, fa parte del substrato della costruzione dell’uomo. Questa svalutazione, che simbolizza la vita, dà origine ad una perversione radicale che inverte il fondamento base del valore dell’umano. Quindi, come sostiene Nancy Harstock, nella tradizione occidentale “forse l’inversione più drammatica (anche se non l’unica) dell’ordine proprio delle cose, caratteristica dell’esperienza maschile è la sostituzione della vita con la morte”, visto che è la capacità di provocare morte al posto della capacità di dare vita ciò che si considera l’elemento che differenzia gli esseri umani dagli animali. Una riflessione che faceva anche Simon de Beauvoir ne Il Secondo Sesso. Questa perversione si riferisce alla complessità del pensiero e alla razionalità dominante, falsificando i fondamenti della convivenza sociale.

Tutto il passato mi conduce a pensare che all’interno di una cultura patriarcale non c’è alternativa alla violenza. Per eliminare l’attuale stato delle cose, considero importante:

1. scavare e portare alla luce i luoghi della natura/cultura, dove si consolidano le giustificazioni e i modelli che aiutano a riprodurre i referenti di identità primaria con cui misurarci;

2. sviluppare un lavoro di riflessione indirizzata a criticare, smontare e ricostruire l’edificio della razionalità che guida i nostri destini e che si introduce nelle nostre tessiture fisiche (sesso) e culturali (genere) fino a conformarci;

3.incrementare l’autorità simbolica e sociale di chi possiede la capacità di dare la vita e si dedica al suo mantenimento nella pratica di ogni giorno.

Data:

7 Settembre 2019