Sul nostro pianeta non c’è mai stata così tanta abbondanza di cibo, eppure più di 800 milioni di persone continuano a soffrire di fame cronica. A livello quantitativo, ce n’è abbastanza da riuscire a sfamare l’intera popolazione terrestre, ma un terzo degli alimenti prodotti a livello mondiale viene sprecato. Nonostante conflitti, povertà e disastri naturali siano le cause endemiche della fame, l’intera catena di produzione e di consumo alimentare è oggi la principale responsabile dello spreco di cibo.
Nel sud del mondo, che ospita il 98 per cento delle persone che soffrono di malnutrizione, lo spreco avviene tendenzialmente “a monte”. I paesi in via di sviluppo, infatti, sono spesso afflitti dalla precarietà estrema delle proprie infrastrutture agricole e di trasporto, non avendo a disposizione risorse finanziarie adeguate da impiegare nelle fasi di raccolta, stoccaggio e spedizione degli alimenti. Questi mezzi non mancano certo ai paesi sviluppati, che comunque sono responsabili di oltre la metà dello sperpero mondiale di cibo, che invece avviene principalmente nelle fasi di distribuzione e consumo.
Da un lato, infatti, i supermercati riempiono i propri scaffali con una quantità sproporzionata di prodotti che poi non riescono a vendere; dall’altro, la gente tende a comprare più di quanto abbia realmente bisogno, spesso in risposta a offerte speciali o allettata dalla pubblicità. Il risultato drammatico di questa cecità consumistica è la perdita quotidiana di alimenti che sono ancora in buone condizioni per essere mangiati.Secondo la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione), in tutto il mondo lo spreco annuale di cibo ammonta a 1,3 miliardi di tonnellate. Riciclando quello cestinato nella sola Europa, dove ogni persona ne butta nella spazzatura 179 chili ogni anno, si potrebbero nutrire almeno 200 milioni di persone. Anche il nostro Paese dà il suo contributo, sperperando quasi 4 milioni di tonnellate di alimenti a causa della mancata raccolta nei campi e degli ingenti sprechi nella produzione industriale e nella distribuzione commerciale.
Questa devastante perdita di cibo a livello globale, oltre a sollevare considerevoli questioni di natura etica, ha ripercussioni economiche devastanti: un danno valutato dalla FAO attorno ai 565 miliardi di euro l’anno. In Italia – dove si butta via mediamente il 17 per cento dei prodotti ortofrutticoli acquistati, il 15 per cento di pesce, il 28 per cento di pasta e pane, il 29 per cento di uova, il 30 per cento di carne e il 32 per cento di latticini – dal punto di vista economico, il solo sperpero domestico costa annualmente oltre 8 miliardi di euro (1.693 euro l’anno a famiglia). Tutto questo mentre l’Istat conta ormai più di 10 milioni di italiani che vivono e si alimentano in condizioni di povertà.
Lo spreco alimentare, inoltre, grava in maniera insostenibile sulle risorse naturali da cui gli esseri umani dipendono per nutrirsi. Il rapporto Food Wastage Footprint: Impact on Natural Resources, pubblicato dalla FAO nel settembre 2013, è stato il primo a prendere in esame l’impatto ambientale, analizzando le conseguenze sul clima, le risorse idriche, l’utilizzo del territorio e la biodiversità. Da questo studio è così emerso che il cibo prodotto, ma non consumato, sperpera un volume d’acqua pari al flusso annuo di un fiume come il Volga; utilizza 1,4 miliardi di ettari di terreno, pari a circa il 30 per cento della superficie agricola mondiale; ed è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra. Solamente Stati Uniti e Cina inquinano di più.Alla luce delle questioni etiche che solleva e delle devastanti conseguenze socio-economiche e ambientali che genera, questo problema dovrebbe essere seriamente affrontato da tutti (governi, istituzioni, amministrazioni locali, imprese e società civile) come una priorità assoluta, al fine di intraprendere una vera e propria crociata contro lo spreco di cibo in tutto il mondo.