Steve Bannon, classe ’53, di Norfolk, Virgina, è una pedina importante nello scacchiere politico di Donald Trump. Appartenente all’estrema destra, non si è nascosto nel definire lo stesso tycoon “un moderato”, sebbene sia stato il suo ideologo. Con un ruolo determinante nel gruppo “Make America Great Again” (Maga), è il cavallo che più traina a destra il movimento, forte anche di un podcast che conduce da alcuni anni, il cui titolo non lascia spazio a fraintendimenti: “War Room”.
Laureato in pianificazione urbana, con un passato persino da produttore di film e documentari a Hollywood, negli anni ’90 ha iniziato a interessarsi alla politica, sviluppando idee che combinavano nazionalismo economico e conservatorismo populista. Si è quindi avvicinato a Donald Trump, sostenendolo nella campagna elettorale del 2016 e rivestendo in quel contesto un ruolo cruciale, con il quale è riuscito a plasmare la strategia che ha consentito la sua elezione a presidente degli Stati Uniti, per poi ottenere, subito dopo, una nomina a capo stratega della Casa Bianca. Poi ha seguito Donald Trump anche con i guai giudiziari.
Attualmente è in carcere, ove sta scontando una condanna a quattro mesi per essersi rifiutato di testimoniare dinanzi alla Corte in merito ai fatti di Capitol Hill. “Sono un prigioniero politico”, ha detto, ma allo stesso tempo si è dichiarato “orgoglioso di andare in prigione, senza rimpianti, orgoglioso di quello che ho fatto”, nella convinzione che quel “War Room”, già molto seguito, con la sua detenzione potesse crescere ulteriormente.
La notizia di oggi è che Bannon dovrà affrontare un altro processo, questa volta per un tentativo di truffa e un’accusa di riciclaggio, ben 15 milioni di dollari che sono stati raccolti per la costruzione del muro con il Messico tanto caro a Trump.
La permanenza di Bannon alla Casa Bianca era stata già oggetto di controversie, a causa di uno stile comunicativo particolarmente diretto e aggressivo, nonché per le politiche che contestualmente ha promosso. È stato sollevato dagli incarichi nel 2017, a causa di tensioni interne all’amministrazione e per una crescente pressione pubblica e mediatica particolarmente invisa. Tutto ciò non lo ha per nulla demoralizzato, seguitando a influenzare la politica conservatrice sia negli Stati Uniti che in Europa e restando molto attivo nei media. “Sulla questione dell’immigrazione al confine meridionale con il Messico, abbiamo visioni ben diverse”, ha riferito in una recente intervista al noto giornalista americano David Brooks, riferendosi con il “noi” agli attivisti appartenenti al gruppo Maga; la sua opinione è invece ben sintetizzata: “devono andare tutti a casa”. E lo dice in maniera ferma, secca.
In relazione alla campagna elettorale e ai rapporti con i democratici, Bannon va avanti per la sua strada: “non c’è possibilità di dialogo, lottiamo per la nostra repubblica, non cerchiamo compromessi, ma la vittoria”, ha dichiarato, convinto della nuova rielezione del tycoon dopo che in tempi non sospetti aveva già profetizzato l’uscita di scena di Biden.
Steve Bannon ha una visione influenzata da una profonda sfiducia verso le élite e le istituzioni globali e possiede uno stile comunicativo orientato a polarizzare e radicalizzare il discorso politico. Non c’è spazio per la globalizzazione, che arricchisce solo le élite a scapito delle classi lavoratrici, così come non c’è spazio per le guerre, specie se “infinite”, come quelle condotte dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, che hanno drenato risorse e sangue americano senza portare benefici tangibili per il paese. Ovviamente, lui come l’altro “75% dei nostri attivisti non vuole più versare un penny in territorio ucraino”.
Queste le idee più significative, ma tutte confluiscono su quella più importante, il nazionalismo a 360 gradi, l’unico in grado di proteggere gli interessi degli Stati Uniti, che sono assolutamente prioritari rispetto ad ogni altra questione di livello internazionale.
Il 31 ottobre prossimo uscirà dal carcere, in tempo per le elezioni presidenziali e per affrontare, il 9 dicembre, questo nuovo processo; e, anche se al momento l’uso di internet è molto limitato, resta convinto che “non c’è prigione che mi farà mai tacere. Vinceremo questo caso (ovvero quello relativo alla mancata comparizione dinanzi alla corte). Vinceremo alla Corte Suprema e vinceremo il 5 novembre”.