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SU UN’OPERA DI MARIO MERZ – “Se la forma scompare, non temere: la sua radice è eterna.”

Mario Merz nasce a Milano da una famiglia d’origine svizzera e si forma a Torino, dove inizia gli studi di medicina. Partecipa alla Seconda guerra mondiale, combattendo nel gruppo antifascista Giustizia e Libertà, una scelta che gli costerà la terribile esperienza della prigionia. Dopo la guerra inizia il suo intenso percorso
di pittore, passando in breve tempo dall’astrattismo
all’ informale.
Al 1954 risale la sua prima esposizione personale (Torino, Galleria La Bussola), mentre dal decennio seguente inizia la sperimentazione di altre tecniche tra cui l’adozione di tubi al neon (con i quali riprodurrà gli slogan del movimento studentesco del 1968) ma anche ferro, cera, pietra e terra, elementi che ne determinarono il totale abbandono della pittura tradizionale per una definitiva svolta materica.
Un igloo ( simbolo della volta celeste e della convivialità), costituito da uno scheletro di metallo ricoperto da frammenti di fango, argilla, vetro, iuta e fascine di rami, cui spesso si aggiungevano frasi politiche o letterarie trascritte dai tubi al neon, diventerà uno dei suoi motivi caratterizzanti.
Nel 1959 sposa Marisa, artista anche lei, da cui ebbe una figlia Beatrice. Si trasferisce prima in Svizzera, e poi a Pisa, per tornare infine a Torino.
Il suo nome e la sua poetica si collegano indissolubilmente a quello dell’Arte povera di cui fu uno dei massimi esponenti a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, insieme a Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Alighiero Boetti e altri artisti per lo più della scena torinese, riuniti sotto questa corrente dal critico Germano Celant.
Un movimento quello dell’Arte povera, caratterizzato da un’estetica antielitaria, che utilizzava materiali umili, tratti dalla vita quotidiana e dal mondo organico, in segno di protesta per la natura disumanizzante dell’industrializzazione e del capitalismo consumista.

“Se la forma scompare, non temere: la sua radice è eterna.”

Questo verso, ricreato con tubi al neon blu imitando la calligrafia dell’artista, è tratto da un componimento del poeta persiano del XIII secolo Jalal al-Din Rumi, un mistico sufi che fondò l’Ordine dei Dervisci Rotanti.
Presentandolo come un’insegna al neon (affinché la parola sia raggiungibile, affinché le parole siano percepite come gli occhi percepiscono la luce), Mario Merz lo trasforma in un programma artistico: è sul bordo della parola che il significato attende. Benché il cosmo sia in continua trasformazione e gli esseri viventi che lo abitano e i processi di crescita della natura siano in continua mutazione, le radici, i fondamenti e i principi del mondo restano immortali, eterni.
In quest’opera la fusione del mezzo significante (neon / pensiero) e delle parole esplicitate (titolo / idea / significato), conferisce all’ oggetto d’arte una sua particolare unicità per cui le parole risultano più incisive delle azioni.
Fu esposto per la prima volta nel 1982. Una successiva versione fu realizzata per la Collezione Peggy Guggenheim nell’agosto 1989, prima di una conferenza stampa, a Venezia, per una retrospettiva delle sue opere al Museo Solomon R. Guggenheim di New York di quello stesso anno.
Merz iniziò ad utilizzare i neon intorno al 1966.
Per lui rappresentavano la luce dell’intelligenza umana, il potere del pensiero, la forza ispiratrice delle idee, fermamente convinto che l’arte fosse anche e soprattutto un sentimento, uno strappo interiore.

Data:

11 Agosto 2024