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"SUB NOCTEM"

cms_21311/1.jpgHo letto il libro di Bartolomeo Smaldone “Sub Noctem”, Edizioni Il Ciliegio, pp. 164.

L’ho letto in poche ore, tutto d’un fiato; perché da questo libro, una volta cominciato a leggerlo, difficilmente riesci a staccartene tanta è la forza d’attrazione che esercita sull’avida curiosità del lettore.

Un’avida curiosità resa tale da una serie di elementi letterari: un intreccio degno di Cornell Woolrich, un’ambientazione fortemente simbolica, atmosfere oniriche, una spersonalizzazione quasi totale del protagonista che narra la sua storia come nascosto dietro il paravento acquoso della vaghezza e dell’insondabilità, elemento quest’ultimo alquanto destabilizzante per qualsiasi lettore.

È un’opera che ha fascino, senz’ombra di dubbio; ed è proprio quel fascino “demoniaco” nel senso dostoevskijano del termine che cattura e tiene avvinti sino all’ultima pagina. Prendo avvio dal quarto elemento, il più inquietante e, come ho detto, il più attraente: gli antichi autori greci chiamerebbero tale elemento “sublime”!

La coscienza del protagonista è spiazzata a se stessa; è nella fase del suo caotico farsi e comprendersi; è in una sorta di accelerazione panica della conoscenza di sé e dei suoi squilibri psicologici.

Mi ha ricordato l’Innominabile di Beckett, una personalità che sfugge sia al protagonista della storia e sia, di conseguenza, al lettore. Su tutto questo stato di semi-coscienza/incoscienza spicca, assoluta, un’urgenza: la Verità, giungere alla Verità per raccontarla, per comunicarla, per trasmetterla… prima che si perda per sempre; prima che si smarrisca nel mare delle illazioni, delle congetture, dei giudizi pre-confezionati e, dunque, falsi. Lo straniamento del protagonista è totale, drammatico: l’imperativo è ri-conoscersi, al più presto. E ciò può avvenire soltanto con un analizzare atrocemente lucido, disincantato, impietoso, disilluso i propri errori, le proprie colpe, i propri difetti; ma anche, logicamente e giustamente, i propri sogni, le proprie passioni, le proprie ambizioni… in una parola, insomma: la propria umanità!

È come se il protagonista effettuasse, da solo, l’esame autoptico sul suo corpo per ricercare le ragioni del suo stato, per capire le dinamiche che lo hanno condotto a versare nelle condizioni in cui versa, per trovare il nucleo del suo sentire e, forse, per porvi rimedio con una metaforica estrema unzione che assolva dal peccato: tipica sensibilità da poeta! Marcatamente gotica la prima parte del romanzo, gotica non tanto nell’accezione di Walpole quanto in quella di Lovecraft, notturna e sospesa pur nella sua concitazione psichica tutta tesa a sottrarre precisione a tutto vantaggio di un mistero dai contorni rarefatti come un alone.

Di mistero, poi, sembra impregnato ogni luogo in cui si muovono i personaggi: il sanatorio, il bosco di querce selvatiche, la sala dalle volte affrescate; persino le docce, lavacro di deiezioni infantili, l’Oasi di San Cristoforo… e finanche le Stazioni di Servizio! Un mistero da tregenda che grava su ogni aspetto e circostanza della prima parte deformando la realtà in allucinazione. Il bosco, per esempio. Questo bosco antidiluviano, antelucano, primigenio è un bosco altro (“narrativo” lo chiamerebbe Eco), che rimanda ad un Altrove bidimensionale immagine della Scrittura, della pagina da scriversi; con tutti quegli uccelli che piovono dall’alto morti e che il protagonista “multiplo” seppellisce con commozione, i quali incarnano i pensieri da scriversi, morti perché tirati fuori dal volo naturale della mente e costretti a sottostare alle regole della comunicazione… che li svilisce.

E poi le formiche nella loro dicotomia ossimorica, fragili e forti, come la scrittura, appunto: disordinatamente organizzate (Maeterlinck docet); oltre, naturalmente, a denunciare il periodo di ctonia iperattività nervosa dei “fusi” protagonisti alla ricerca di un presente ed un futuro incerti. Diversa la seconda parte, non più gotica ma kafkiana, diurna, che s’incammina verso il luogo sacro come pellegrina speranzosa in cerca del miracolo; che comincia ad organizzarsi per afferrare il senso della vita in generale ed approdare alla soluzione dell’arcano in particolare. Un viaggio, dalla frammentazione all’unità, dai puntuti cocci di vetro all’armonia sinuosa del vaso riportato all’antico splendore di forme conservando le cicatrici dorate (d’oro perché sature di valore) in una sorta di nipponico kintsugi.

Probabilmente, non è un caso che nella seconda parte, kafkiana pure in questo, appaia un’ironia surreale (quanto ho sorriso immaginando il protagonista a bordo della canoa; oppure vedendolo pregare una personalissima Santa Trinità costituita dal dio dei treni, dal dio dei frigoriferi e dal dio dei ponti! Oppure, ancora, leggendo la definizione che diventa nome di persona “il nipote del magnate dei cilindri in cartone per la carta igienica”; ripetizione pignola di qualcosa o di qualcuno usata da Ungar ne “La Classe”) che tenta una distensione della tensione per discioglierla nella catarsi finale. Il senso della vita passa anche, e forse soprattutto, attraverso un fatalismo ironico che è pure la visione, ingenua e poetica al contempo, dei bambini: un saggio adattamento alle leggi mantenendo intatta la folle (nel senso di “originale”) libertà individuale.

Infine l’intreccio. Cosa sono i romanzi-sogno se non l’allegoria della trascendenza della Realtà? Cosa sono i romanzi-sogno se non l’impalcatura che sostiene la Verità nel suo edificarsi senza infingimenti? Più della domanda: “Cos’è l’Arte?”, la cui risposta è semplice e scontata (risposta che, comunque, il vecchio curvo sotto il peso degli anni ma che pian piano ringiovanisce in effetti dà al protagonista), il romanzo ne pone un’altra, ovvero: “Cosa spinge a fare Arte?”, domanda simile alla prima sostanzialmente, però differente in quanto la precede e la partorisce dandole fondamento ontologico, se mi si consente il gioco di parole.

L’amore, forse improvviso o forse congenito (l’annoso dilemma), del protagonista per la Parola è specificatamente quanto sopra sostenuto: la magia della Parola, un segno che ha il potere, sebbene non assoluto (e ciò è un bene, altrimenti non si avrebbe Letteratura), di tendere un filo tra noi e gli altri (“… perché nessuno dovrebbe starsene da solo nella vita, invisibile agli occhi degli altri.”), di donare al prossimo la nostra esperienza e da esso riceverla in un reciproco, mutuo aiuto per affrontare, insieme, la battaglia contro la morte, spirituale e corporale! La Parola come forza del pensiero, baluardo al caos ed al nulla. Un libro la cui lettura consiglio a coloro che stanno cercando in sé l’Amore, l’Amore per la vita, con tutte le loro energie. Perché “… La vita ha un maledetto, buon odore. “

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Note biografiche:

Bartolomeo Smaldone è nato ad Altamura, dove vive ed opera, il 1972.

Ha pubblicato svariate sillogi di poesia. Tra le tante si ricordano: “Del vento e del rovescio della medaglia” (2003), “Gente” (2009), “Atomi” (2011), “Poesia semplice” (2014), “La contadina furba, ovvero il sassolino ridotto in polvere che trovò dimora in una scarpa fuori moda” (2016), “Sine die” (2017), “Alta sui gorghi -miscellanea di critica e poesia- (2017), “Sottrazioni” (2018), “Disobbedienza” (2018), “Viene una seconda volta il cane fulvo” (2019), “Per ischerzo” (2020). Ha al suo attivo anche due romanzi: “Se i tuoi occhi un giorno” (2012) e “Sub noctem” (2016). Sempre nel 2016 pubblica una raccolta di filastrocche dal titolo “Sotto la panca -filastrocche per tutti, o quasi”; mentre nel 2017 dà alle stampe “ABS -apparente buona salute-“.

Bartolomeo Smaldone è Presidente del Movimento Culturale Spiragli di Altamura.

Nel 2020 ha vinto il premio “Montale Fuori di Casa” per la Sezione Mediterraneo.

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Data:

19 Marzo 2021