Italian Theory o Italian Thought?
L’”Italian Theory” – o come preferisce Roberto Esposito l’“Italian Thought” – presenta da un lato, il paradigma biopolitico, dall’altro la critica della teologia politica.
La critica della teologia politica, come il tema della secolarizzazione, attraversano autori come Marramao e Vattimo, che lavorano sulla secolarizzazione, Tronti e Cacciari sulla teologia politica, mentre Negri oppone una filosofia dell’immanenza a una filosofia della trascendenza, come Esposito.
Dalla fine degli anni Settanta, la riflessione sulla teologia politica è diventata centrale. Nel pensare la crisi in senso antagonista come pensiero radicale, il campo di tensione che la crisi mette in gioco può essere governato quando il politico abbandona le forme della modernità, assumendo la crisi come funzione all’interno della stessa ragione neoliberale. La riflessione sulla teologia politica è mossa dall’esigenza di recuperare l’autonomia del politico, ragionando sulla governabilità dell’economia neoliberista, nel tentativo di rispondere politicamente allo strapotere dell’economia, ma finisce tuttavia per essere funzionale alla mentalità pro-economia neoliberale.
La linea teologico-politica cerca sempre di recuperare l’umano, mentre nel paradigma biopolitico è la vita a essere valorizzata. Avviando una riflessione alternativa al teologico-politico, il teologico appare la proiezione delle istanze del politico.
Anche in Foucault, d’altra parte, è l’economia del governo a produrre l’esigenza di una legittimazione di tipo teologico, rispecchiando le esigenze ordinamentali e pragmatico-disciplinari della società.
Come hanno dimostrato gli storici, è interessante esaminare quei momenti in cui il disciplinamento non ha funzionato. Pensiamo al comportamento delle masse nella Rivoluzione francese, alle forme di soggettività alternative che si sono prodotte: sono tratti salienti del cambiamento storico in cui si producono biforcazioni, talora drastiche talora impercettibili, tra opzioni diverse, opponendosi alle pratiche del potere. A queste pratiche i soggetti non hanno solo opposto resistenza, ma proposto vie diverse, strade alternative e originali. Al centro dunque, c’e’ il conflitto.
Ma come si articola il conflitto nella contemporaneità?
Una categoria centrale nel pensiero dell’”Italian Theory” è quella del conflitto. Tuttavia, oggi la “negatività” – vale a dire la forza propulsiva del conflitto- viene sempre meno, soffocata da un “eccesso di positività” che livella tutte le manifestazioni del pensiero e della socialità, imposta mediaticamente dalle agenzie del sapere e politicamente dallo svuotamento delle forme di rappresentanza.
Nelle analisi sulla post-democrazia, non c’è solo la tecnocrazia che livella tutto, che si concentra nel problem-solving, neutralizzando così il conflitto, nella rilevanza di logiche corporative, nella legittimazione ex post per avallare decisioni già prese in precedenza, nella riduzione del popolo a corpo elettorale da “auscultare” tramite i sondaggi etc.
Nel neo-populismo “mediatico”, il popolo funge da pubblico, da audience in attesa di recepire non informazioni, programmi, argomentazioni, ma messaggi-annuncio; dall’altra parte, il populismo “politico”, dalla doppia faccia insurrezionale-istituzionale, si presenta in Europa con tratti nazionalisti e xenofobi.
Una prospettiva filosofica radicale dovrebbe salutare questo tratto persino come liberatorio, perché mette in luce conflittualità endemiche, che è però difficile riportare a una compartimentazione concettuale classica. Il conflitto non è più omogeneo, binario.
Contro il modello machiavelliano che prevede la compresenza di ordini in conflitto, il modello moderno – si pensi a Hobbes, dove il popolo è unificato dal sovrano, o a Rousseu, dove il popolo è il sovrano – nasce intorno a un progetto di neutralizzazione dei conflitti.
In realtà, come spesso accade nei concetti politici fondamentali, il concetto di popolo ha sempre significato due cose diverse. Da una parte, il popolo come la totalità, dall’altra, il popolo come parte popolare e dunque anche come parte esclusa. Se interroghiamo criticamente il problema del populismo, la domanda prioritaria consiste nel chiedersi che cosa è un popolo: questa è stata la grande categoria neutralizzata della modernità, sia in senso hobbesiano che rousseauiano, nella quale si manifesta una binarietà costitutiva.
E tuttavia, una volta pensata la necessità del conflitto – afferma Marramao – si pone il problema di come organizzare il conflitto: varie tesi sono possibili, ma in primo luogo il conflitto va difeso.
Una possibile risposta l’ha data Ernesto Laclau, che insieme a Chantal Mouffe ha lavorato sul rapporto tra Gramsci e Althusser. Laclau ha posto un problema serio.
Noi che veniamo dopo Hobbes e dopo il Leviatano, nel senso che abbiamo alle spalle la cesura storico-strutturale rappresentata dallo Stato moderno, pensiamo che non si dà Popolo, ma solo moltitudine di individui o di differenze singolari. Eppure, proprio da Hobbes scaturisce la tesi, poi ripresa da Kelsen, che il popolo è un concetto giuridico: prima del diritto positivo, posto dalla sovranità, non ha senso parlare di popolo.
A questa traiettoria paradigmatica Laclau rivolge un’obiezione decisiva: è vero che il popolo non esiste materialmente o sociologicamente prima di essere costruito, ma, ancor prima di essere una costruzione giuridica, il popolo esiste come costrutto politico. Non c’è politica che non abbia costruito un concetto di popolo. Senza il “popolo” il destinatario del politico è un destinatario assente, anche rispetto alla binarietà del conflitto.
La tesi per cui il popolo è presente solo nella dimensione giuridica, mentre sociologicamente è una molteplicità di differenze, non toglie il fatto che il popolo deve prima esistere come concetto politico. Va da sé che un argomento del genere pone un problema cruciale anche rispetto al cosmopolitismo. Se il politico non trova un radicamento verso il basso, l’ideale cosmopolita finisce inevitabilmente per prestare il fianco a tutte quelle critiche di astrattezza e intellettualismo che sconfinano in una sostanziale riedizione del sovranismo o del nazionalismo.
Il conflitto è una categoria chiave dell’”Italian Theory” – afferma Dario Gentili – il conflitto è una forma eminente di relazione. Quando con la costituzione delle cittadinanze nazionali, si è affermata la costruzione del popolo come sintesi delle differenze, riscoprire il conflitto significava riproporlo nell’accezione dicotomica e antagonista e, dunque, come conflitto di classe. Parliamo di quella peculiare saldatura e alleanza teorica tra Marx espressa nella lotta di classe e il binomio schmittiano amico/nemico. La rivendicazione di classe è l’elemento di rottura all’interno del popolo.
Oggi che i dispositivi del neo-liberalismo neutralizzano, ma “non eliminano” questo genere di conflitti, bisogna tornare alla matrice relazionale del conflitto, parallela a quella antagonista e posta nel cuore della disuguaglianza, che è anche disuguaglianza di classe. Il conflitto andrebbe quindi articolato ulteriormente rispetto alla sua opzione binaria e dicotomica, tenendo bene a mente che il conflitto non è solo ciò che divide la società, ma è anche ciò che fa società.
(Continua)
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SULLA VIGENZA DEL CONFLITTO: L’ITALIAN THEORY (I^ PARTE)
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