Furono Adorno ed Horkheimer nel loro profetico Dialettica dell’Illumismo a far risalire al mito di Ulisse l’origine della ragione strumentale e tecnica. Dal mito alla realtà odierna abbiamo imparato, a nostre spese, che la tecnologia non è un semplice elemento o strumento con il quale agiamo sul mondo, ma è divenuto un sistema, una forma di potere autonomo che si serve di noi per potenziare la sua influenza e riorganizza il nostro modo di vivere. Consumare tecnologia è dunque usare e farsi usare da un potere che agisce sui nostri comportamenti e si riflette sulla visione del mondo di noi cittadini globali. Le nuove sfide nate dal bisogno della convergenza digitale per sussumere ogni forma di controllo e rendere il controllo umano sempre più ancillare rispetto alle mire espansionistiche della tecnologia, portano al trionfo generale e planetario di ciò che viene definito tecnocapitalismo, un oligopolio che fonda il suo potere sull’automazione e il controllo del pensiero a vantaggio di pochi. Nuove schiavitù (meno evidenti rispetto al passato) rendono l’uomo un fedele operaio ligio al servizio della razionalizzazione della società operata da un apparato invisibile e digitalizzato.
Di fronte all’attuale avanzare dell’algoritmizzazione della società e dei processi di dataficazione delle nostre vite, gli individui partecipano felici allo sfruttamento online dei loro pensieri e delle loro immagini, soprattutto quelle dei minori, merce sempre più pregiata e fonte di arricchimento personale. Si chiamano baby influencer e sono già da piccoli immersi in un giro di affari e in un business a loro spesso ignoto. La sovraesposizione viene foraggiata e incoraggiata da genitori spesso già noti, famosi e conosciuti al grande pubblico che usano i loro figli per promuovere beni e servizi collegati al loro brand. È una vera e propria operazione di marketing in cui il tasso di interazione dei contenuti in cui i minori diventano i veri protagonisti dei social, conosce numeri tre volte maggiori rispetto a video in cui compaiono solo individui adulti. Genitori famosi che sfruttano gesta inconsapevoli di figli famosi sono ormai all’ordine del giorno; dopo i Ferragnez ormai si sprecano i casi di un lui e di una lei che aprono brand in cui lei/lui è una/un influencer di successo o comunque nota nel panorama del web, infosfera in cui fanno esibire i propri piccoli con indosso qualche capo brandizzato o si divertono a farli divertire con qualche giocattolo od oggetto tecnologico.
I filmati sono tutti girati rasentando la banalità del quotidiano, una scelta non casuale visto che poi sono fagocitati da un’utenza spesso poco attenta a certe provocazioni comunicative dettate da ragioni di marketing. L’Italia come altre nazioni europee e non solo, si è mossa per mettere fine allo sfruttamento dei minori sotto i sedici anni. La diffusione però dello sharenting, ovvero la pratica di pubblicare online contenuti che riguardano i propri figli da parte dei genitori, sembra aggirare al momento il problema mettendo a rischio la privacy dei minori per il puro sfruttamento economico di un brand. Le giuste e condivisibili preoccupazioni etiche derivanti da una fama non voluta da parte dei figli dello star system del web, sono frutto di una mancanza di consapevolezza di quelli che sono i forti pregiudizi cui sono sottoposti i minori quando vengono esposti in rete. Un sistema dalla forte connotazione tecnologica come il web e dall’immenso potenziale comunicativo, viene usato, come spesso accade, in assenza di una giusta e sana educazione digitale e attraverso un utilizzo attraverso modi e tempi sbagliati.