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TEMPO E LINGUAGGIO PER UNA TEORIA DELL’ARRETRAMENTO

Introduzione

Il linguaggio, capacità essenziale dell’animale umano, rappresenta una ricchezza inusitata, una varietà molteplice ed esteriormente eterogenea, che riesce a colorare e a tinteggiare infiniti spazi di contiguità semiologica. Narrare tale illustrazione e trovare il fondo causale di tale facoltà, è certamente un’impresa ardua e in parte effimera. Eziologia faticosa perché riottosa ad ogni categorizzazione numerica e monocausale e, soprattutto, esposta «all’accusa di circolarità o a quella di aver eluso il punto della questione» (Rorty, 1994, p. 27). Si potrebbe chiaramente obiettare che la forma linguistica di una proposizione, non possa sufficientemente figurare la forma logica dei fatti o il mondo materiale e/o sociale. Un malcelato scetticismo si nasconde nell’opinione comune e la stessa caratterizzazione logico-significativa delle parole, viene fronteggiata con scarso riguardo: il parlare e le occorrenze sono considerate come meri strumenti di comunicazione pubblicitaria, non solo per i fatti economici. La scoperta faticosa dell’origine del parlante si cela, in ragione di ciò, in un antro disagevole che suona le corde del metalinguaggio e della metafisica del dire. Non può far piacere a nessuno ritenere la non verità del parlare o il suo solo uso sociale, come sottolineava Wittgenstein nelle sue Ricerche logiche (2009). Al tacere dell’impresa ardua, come aforisticamente indicava lo stesso Wittgenstein al termine del Tractatus logico-philosophicus (2009) perché prospettante una trascendenza originaria del filosofico lontana dalla verificabilità di un fatto logico-reale si aggiunge, oggi, la labilità della pratica dello scrivere e del parlare. Il monito di Benjamin risuona oggi profeticamente più che mai: «il riguardo per il fruitore non si dimostra mai fruttuoso alla comprensione di un’opera o di una forma d’arte» (1991, p. 9). Tale fatto comprova come spesso l’aprir bocca nell’agone dei social, equivalga a sospirati flatus vocis significazionali tanto ossequiati come «l’elmo di Mambrino» (Cervantes, 2014, p. 134). L’unico procedimento possibile per definire il linguaggio, sembra solo quello utilitaristico strumentale o iconico rappresentativo, declinazione portata avanti da Peirce (2005) nella prima parte della sua riflessione semiologica. Ma, se le categorie della normalità segnica sono di adamitica memoria, tale contributo vuol fare il verso di Lucifero, riporre fede all’arte segnica prima del proferire, all’aprir bocca prima del risuonare, al «carattere teofanico particolare dell’arte» (Lukacs, 2000, p. 83) del parlare. Lo snodo offerto dalla filosofia analitica e la svolta linguistica, chiariscono come il linguaggio, lungi dal suo utilizzo privato esposto come paradosso inqualificabile, riassuma la peculiarità del linguaggio stesso come fatto eccezionale e al contempo paradossale. Quando il secondo Wittgenstein esponeva la sua presa di distanza dal linguaggio privato, per affermarne il suo uso sociale e normativo dal punto di vista delle regole, si voleva sottolineare che il particolare condizionale del pronunciante segue macchinalmente il controllo sufficiente della comunità dei proferenti. Kripke rilevava come non è tanto il linguaggio privato ad essere negato dalla prospettiva antipsicologista wittgenstiana, quanto il «modello privato del seguire una regola» (Kripke, 2000, p. 89). Infatti, nel linguaggio, le regole della comunicazione nel loro valore segnico e differenziale, vanno a creare sistemi e “funzioni di” dove la stessa utilizzabilità del proferire e dell’intendere, precludono non un individuo fisicamente isolato, ma quello «considerato isolatamente» (ivi, 2000, p. 90) dove, del resto, la stessa alterità interpretante non viene minimamente tenuta d’acconto.  L’ipotesi di questo contributo, pertanto, consta nel trovare proprio quel privato linguistico essenziale come modello esistentivo non soggettivamente sentito e che origina in modo causativo l’esperienza del parlare come effettiva datità dell’essere. Pertanto, una vera riflessione sulla parola non può darsi come una metafisica delle categorie semiologiche che siano ritenute dei puri dati a posteriori, quanto qualificarsi come una spassionata ricerca degli originari modi di senso, trascendenze ipostatiche che potranno forse, «attirare l’anima di un filosofo» (Stendhal, 2019, p. 507) e confermare come asseriva Lacan «una necessità strutturale del linguaggio» (1959, p. 3), processo di sostituzione di un significante con un altro diretto significante.

  1. Strutturalismo linguistico e originarietà dell’asserire

Per giungere all’originarietà dell’asserire, è adatto incominciare ad esaminare le posizioni semiologiche che inscrivono tale scienza in un modello di tipo strutturalistico. Tale constatazione risulta imprescindibile perché lo strutturalismo evidenzia come la rappresentazione della sostanza semiotica sia frutto di una composizionalità di aspetti atomici che, comunque, definiscono il loro essere in una totalità dinamica e ricadente nei diversi aspetti della convenzionalità sociale. Barthes nei suoi Elementi di semiologia (2002), sposta abilmente la posizione del Corso di linguistica generale di Saussure (2009) indicando come la linguistica non sia un sottoinsieme della semiologia, ma il suo esatto contrario. Per l’Autore francese, infatti, è proprio la linguistica che offre le categorie interpretative della significazione tout court. La parole saussuriana presenta un aspetto combinatorio che è principalmente costituito dal ritorno dei segni verso l’interpretante in una biplanarità di significante e significato. Elemento indispensabile del percorso che contraddistingue la langue nella parole individuale, è soprattutto il modo differenziale che costituisce l’intero assetto di senso della significazione. Se la lingua presenta una forma materiale che ha già una realizzazione sociale e valoriale, gli stessi rapporti di determinazione segnica sono eterogenei e costitutivi di un’arbitrarietà in cui la comunità dei parlanti funge non solo da effetto, ma anche da causa immanente. A un linguaggio strutturalmente frazionabile e ricomponibile del modello strutturalista, la specialità degli studi si è spostata come denota Benveniste sulla prassi dell’enunciazione (2009). Un’ipotesi dei piani linguistici differenzianti, rende maggiormente il senso dell’essere parlante: una ricchezza inavvertibilmente profusa di novità nei rapporti segnici e, proprio per questo, «si può già intravedere che, oltre e non meno dei sistemi di segni, saranno le relazionifra questi sistemi a costituire l’oggetto della semiologia» (Benveniste, 2009, p. 40). La determinazione del linguaggio come sistema dell’oltre il singolo elemento addizionale e sottraente, proietta in avanti la relazione d’interpretanza tra interpretante ed interpretato e, da ciò, s’instrada il concetto di ridondanza così ben espresso da Jakobson (2002). Per il linguista russo, di fatto, «la nozione di ridondanza, […] ha acquisito un posto importante nello sviluppo di tale teoria ed è stata ridefinita in modo stimolante come “uno, meno l’entropia relativa.”» (ivi, 2002, p. 90). Tale concezione rinvia in modo esemplificativo alla natura arbitraria del linguaggio dove l’interpretante getta all’evento nominale il grado di significazione indicale o simbolica senza però darne una soluzione definitiva. La ricchezza del linguaggio anche nel processo non verbale, comporta ciò che Deleuze in Logica del senso (1975) precisava: il principio stesso dell’emissione della parola ha la sua logica nella differenza, tanto da far sì che la «sua peculiare proprietà di essere sempre spostato rispetto a sé stesso, di “mancare al proprio posto,” alla propria identità, alla propria somiglianza, al proprio equilibrio» (ivi, 1975, p. 52). Un’opera classica dello strutturalismo linguistico sull’acquisizione dello sviluppo fonetico (Jakobson, 1971), afferma che «la sequenza per stadi dei sistemi fonematici risulta significativa e rigorosamente coerente» (ivi, 1971, p. 69). Pur tuttavia, tale analisi approfondisce nell’afasia solo il criterio accrescitivo ed evolutivo delle competenze linguistiche, trascurandone il valore del riferimento semantico differenziale. La critica di Quine (2004) alla linguistica che intende catalogare e operare in modo numerico sulle unità fonematiche e morfematiche, consta proprio nel trascurare che «la classe K è oggettivamente determinata prima ancora che inizi la ricerca grammaticale» (ivi, 2004, p. 72), dove per classe K s’intende la rappresentazione ideale dei modelli di espressione fonetica. Oltre tutto, la stessa classe K non può letteralmente operare in modo solitario, ad essa vanno aggiunte «quelle che potrebbero essere proferite senza provocare reazioni che farebbero pensare a bizzarrie idiomatiche» (ivi, 2004, p. 74). L’anteriore significativo alla classe dei fonemi e i suoi possibili rivolgimenti prospettici nella creatività linguistica, gettano una diversa luce sul fenomeno, ovvero delineano l’opportuno ricorso ad un tangibile principio significativo primitivo al parlare e, di rimando, a tutti i diversi sistemi semiologici. Soprattutto, l’apriori significativo prima del dire, è ciò che interessa a tale contributo, poiché un giudizio di similarità fonetica secondo una sorta di legge dell’imitazione, mal si accorda con quella capacità creativa ed infinita del linguaggio verbale e non. Il parlare descrive, pertanto, una semiotica immanente quasi “naturale” nel suo operare quotidiano, ma anche una semantica nel suo comprendere. Benveniste, considerando quanto poco sopra riportato, delineava come «la differenza fra riconoscere e comprendere rinvia a due facoltà distinte della mente: quella di percepire l’identità fra l’anteriore e l’attuale, da una parte, e quella di percepire la significazione di una nuova enunciazione, dall’altra» (2009, p. 20).

  • Teoria dell’enunciazione e metalinguaggio

Facendo riferimento alla differenza tra semiotica e semantica, il presente lavoro vuole mettere in atto un passo di arretramento e trovare in modo soddisfacente l’originarietà del fatto linguistico. Lo strutturalismo alla luce della grammatica generativa, illustra come il rinvenimento degli universali linguistici sia alla base della competenza linguistica e che, proprio a partire da ciò, possa costituire lo snodo esplicativo della infinità delle operazioni comunicative. Chomsky sostiene nei suoi studi che «una grammatica generativa è un sistema di regole esplicite che assegnano a ciascuna successione di suoni, sia essa del corpus osservato o no, una descrizione strutturale che contiene tutte le informazioni su come questa successione di suoni è rappresentata» (1979, p.119). Tale regolazione descrittiva contiene successioni solo esplicitate, ma prima della autoregolazione delle regole del gioco linguistico, risulta basilare appropiarsi non della legge di funzionamento che è già un a posteriori, ma dell’apriori ontologico del parlante. Intrecciare allo strutturalismo il termine ontologico potrebbe costituire di fatto una pretesa fondazionale illegittima allo sviluppo e all’implementazione della competenza linguistica ma tuttavia, il dato semiotico del significare, proprio per la sua grande potenza farmacologica, non si riduce ad un tale panorama ristretto. L’ontologico è il riferimento non ad “un oltre” dall’evento linguistico, ma ad un fatto o accadimento immanente al proferire. Potrebbe sembrare poco appropriato parlare dell’essere quando due soggetti discorrono, ma di fatto entrambi non conversano fuori dalla realtà, l’essere è consostanziale al fluire delle unità morfematiche. I due soggetti, infatti, rimangono impigliati in una datità che al contempo, deve giustificare tale competenza comunicativa e, dall’altra, ritornare in forma ri-attuale come effetto di reciprocità. Greimas e Courtés nel Dizionario ragionato della teoria del linguaggio designavano alla voce “Linguaggio” che «la distinzione fra linguaggi e metalinguaggi è altrettanto delicata. Ogni predicazione – o quantomeno la predicazione attributiva – può essere considerata, al limite, come una operazione metalinguistica» (2007, p. 183). Il metalinguaggio getta in avanti un ponte tra il chiacchiericcio del senso comune ed il momento riflessivo che andrebbe diversamente considerato al di là delle categorie semiche e designanti in arbitrarietà e iconicità. Una teoria dell’enunciazione comprova che, oltre alle referenze che si snodano tra il piano dell’espressione, del contenuto e del referente, vi è anche la non referenza che è tutt’interna al soggetto e che acquista pragmaticità e senso, solo nella situazione dell’esistente ontologico. L’ontico del linguaggio, diventa forma di vita ontologica nella sua praticità utilizzabile nelle situazioni intra ed extrasemiotiche tanto nella rappresentazione dell’esperienza passata, che in quella linguistica e, soprattutto, nella costruzione esplicita delle rappresentazioni metalinguistiche. Quanto sopra riferito, potrebbe essere avvalorato dalla teoria degli shifters che «ancorano il piano dei contenuti proposizionali a quello della situazione di enunciazione» (Basile, 1999, p. 54) che non soltanto variano in direzione degli usi sociali e convenzionali, ma si letteralmente situano in un piano di esistenza dell’essere. A ricercare una a priorità del linguaggio, può aiutare una teoria semiologica come quella di Peirce (2005) che, in uno dei primi articoli/saggi va a riflettere sul senso della semiosi e della rappresentazione. Tale contributo, in conseguenza con quanto riferito fino ad ora, intende ora saggiare la riflessione peirciana per giungere alla radice del processo linguistico e tirare le somme in via ipotetica di una facoltà che risulta normata dal lato cognitivo della capacità.

  • La teoria di Peirce tra essere e sostanza

Peirce, il padre del pragmatismo e della semiotica, già nei primi scritti redatti tra il 1867 ed il 1868, valuta in modo circostanziato l’analitica trascendentale kantiana in ragione dell’adeguatezza o meno del fenomeno della rappresentazione mentale al processo di significazione (Fabbrichesi Leo, 1993). La meditazione delle categorie kantiane e l’impianto della Critica della ragion pura (Kant, 2005), offrono al pensatore di Cambridge quella che sarà poi la via maestra per la presenzialità dell’apprendere e la massima pragmatica (Marconi, 2020). In Una nuova lista di categorie (Peirce, 2005), lo studio dell’unum versus alia consiste proprio «nell’impossibilità di ridurre il contenuto di coscienza a unità» (ivi, 2005, p. 71) senza che vi sia narrato il concetto da rappresentare e poi di interpretante. Tale riferimento al concettuale, come ciò che va oltre all’uno denotato, risulta caratterizzato proprio dal nesso con il presente o la presenzialità che non è connotante, ma figura effettivamente un abito direzionale della mente. In modo acuto Peirce rende il dirigere rappresentativo come forma di attenzione ed utilizza il termine “It” e, in modo filosofico, “It” con la parola “sostanza”. Riecheggiare tale terminologia aristotelica, significa iscrivere la ricerca semiotica all’interno di un processo categoriale astrattivo illustrando poi come la sostanza o “It”, sia una dimensione originaria al di là della predicazione «di un soggetto» (ivi, 2005, p. 72) o in un soggetto. La trasformazione della predicazione in unità di una proposizione come argomento, verifica quella caratteristica dell’essere che implica «un’indefinita determinabilità del predicato» (ivi, p. 72) dove non potrebbero sussistere predicati non effettivi o non referenziali. Da quanto mostrato, si può già ricondurre un’importante critica alla teoria peirciana: come considerare tutti i referenti causali linguistici non oggettivabili ad una sostanza, come nel caso dei lemmi astratti o non referenziabili? Tralasciando tale problematicità, Peirce illustra come la sostanza e l’essere determinano l’inizio e la fine di tutti i concetti e da qui mette in campo alcuni termini tecnici quali: supposizione e prescissione. Quest’ultimo termine è utilizzato come un’astrazione da parte della mente rispetto al dato, il secondo vocabolo riproduce l’attenzione verso un oggetto determinato. In modo analitico, Peirce inserisce altri due tecnicismi: discriminazione, intesa come «essenze dei termini» singoli e dissociazione, «separazione permessa dalla legge di associazione delle immagini in assenza di un’associazione costante» (ivi, p. 73). La prescissione e la supposizione, rispetto al loro modo di procedere come processo di composizionalità delle proposizioni in modo reciproco o meno, necessitano d’altronde sempre del concetto di essere come elemento primo. Tale articolo, partendo dalla riflessione di Peirce, intende seguire la strada del concetto dell’essere come elemento primo al processo di significazione triadica. Dall’essere, in conseguenza di ciò, per addizione e passaggio alla sostanza, si viene ad includere la categoria della qualità che funge da elemento post hoc alla prossimità dell’essere. Se si osserva un oggetto su una scrivania, le caratteristiche qualitative dell’ente ritagliano il “che” dall’indifferenziato essere, al qualitativo porre dell’attenzione del soggetto. L’essere parlante, altresì, costruisce proposizioni logiche di senso dei dati attuali fornendo una correlazione tangibile dell’esperienza pratica ma, alla base, vi è una previa rappresentazione della presenzialità, che funge inevitabilmente da correlato o base: il «ground» (ivi, 2005, p. 75). Tale costituente è citato dal filosofo come «rappresentazione mediatrice che rappresenta il relato come rappresentazione dello stesso correlato rappresentato dalla medesima rappresentazione mediatrice» (ivi, p. 76). Pertanto, facendo un compendio stringato di quanto riportato e chiarendo la terminologia contenuta, si può indicare che l’essere della datità necessita di una qualità irrelata e, da questa, il suo farsi relazione in riferimento a un correlato. Tale movimento ha poi bisogno di un ulteriore tratto, fino alla rappresentazione dell’interpretante che termina il suo percorso alla sostanza semiotica. Il segno, pertanto, è frutto di un’astrazione qualitativa che media il ground ad un correlato e, questo, ad un Interpretante. Si potrebbe ulteriormente chiarire quanto riportato con un esempio tangibile della semiosi sottolineata da Peirce. Su un tavolo vicino alla porta di casa, vi è una base nell’essere di tutti gli enti dati, astratta e correlata alla rappresentazione di un interpretante che ha nominato quell’oggetto chiave, sostanza semiotica utilizzata per aprire o chiudere una porta. Di fatto, il quale della base diventa un relato che, a sua volta, funge da correlato al representamen dell’interpretante e l’uomo riesce a chiudere la porta o ad aprirla. Come sottolinea Fabbrichesi (2014), il percorso peirciano marca in modo originale la teoria più conosciuta di Peirce che vede la triplice divisione dei segni linguistici. Infatti, il quale come base e ground si apprende per somiglianza astratta ed iconica; la relazione con il correlato alla base diventa indice fisico e, infine, il representamen dell’interpretante è raffigurato dal simbolo, valenza arbitraria e convenzionale. La verità peirciana come rendiconto tra termini, proposizioni e argomenti, consta di un continuo movimento d’interpretazione che s’innesta nella natura communis tra ground, correlato e representamen, dall’essere alla sostanza. Ma l’a priori del processo semiotico anche in Peirce è venuto a mancare, poiché il filosofo ha scrutato e indagato in modo magistrale il tratto ulteriormente posteriore dell’andamento segnico. Nozioni come essere, ground e sostanza rimangono lì senza un correlato communis originario e principiale. Nel prosieguo si metterà in atto un’ipotesi interpretativa che cerchi di carpire cosa ci sia alla base dell’essere ed in particolare della facoltà linguistica, signore potente di un’essenza che non è altro che «il senso e il valore della cosa» (Deleuze, 1978, p. 119), domanda metafisica ed essenziale del parlante.

4. Il tempo del linguaggio

In quest’ultimo tratto di percorso la rotta è già stata tracciata, mediata dalla riflessione peirciana (Peirce, 2005) e dall’esame circostanziato dello strutturalismo linguistico e dalla teoria dell’enunciazione di Benveniste (2009). Cosa si stana prima dell’andamento segnico divenuto simbolo conveniente tra i parlanti? Quale originarietà permette al ground di risaltare dentro le maglie d’acciaio dell’essere informe? Le chiavi poste ad esempio poco sopra, sono state prese in mano come un utilizzabile, cercate in modo accorto per non trovarsi fuori casa, conservate come memoria prospettica del ritorno serale. Il prenderle, non è solo una consuetudine funzionale, ma un riconoscimento di un qualche cosa e un atto semiotico di un ente per un altro ente che ha ritagliato un significato particolare nell’essere. Il ground astratto si è correlato alla rappresentazione interpretante e ha fatto della chiave una sostanza con caratteristiche peculiari e anamnesi affettive. Dietro l’atto semiotico vi è però un quantificare non nel senso del puro numerare, ma quello dell’è rispetto al non. Il sommare è una vera e propria disposizione dell’anima, che per testimonianza dell’essere si distingue nei diversi enti significativi e nelle referenze oggettuali, presentando il sé soggettivo nel mare del tempo. La temporalità qui riconosciuta, non è il semplice numerare kantiano delle forme a priori dell’estetica trascendentale (Kant, 2005), ma simboleggia il sé nell’atto prima dell’aprir bocca, dello spazio del prima dell’emissione sonora o del pensiero conscio, del semiotico promettere alle cose come differenza e opposizione tra gli enti nominati. Tale osservazione è simile alla riflessione di Heidegger sulla volontà di potenza in Nietzsche. Essa è, infatti, un’«unità semplicemente unente e originariamente efficiente nel modo dell’appetizione che rappresenta» (1994, p. 897). L’a priori semiotico è una temporalizzazione dell’essere che nell’animale umano si fa simbolo e rappresentazione interpretativa. Gli individui sono per tal ragione interpreti, prima che dei segnali e dei segni, del tempo dell’essere e, proprio per tal ragione, possono navigare a vele spiegate sulle onde delle regole linguistiche. Tale particolarità che ascrive al linguaggio il suo farsi esistenza concreta, diviene uno shifters temporale ricorsivo che pascola nelle pianure dell’interpretanza sentendosi a casa. Non per niente il comunicare del non verbale, non risulta una mera segnaletica a sensi alternati, ma una diretta conseguenza pragmatica del dire. La temporalità del prima nel discorso, racconta una ricchezza semantica che deve ancora accendersi nel tempo del dopo ed è tutta interna al soggetto; essa esprime l’essere umano di fronte all’essere non ancora segnico e in questo ne sprona la sua caratteristica intenzionale. Il “tempo del dopo” costituisce non solo il ground astratto correlato alla rappresentazione simbolica, ma il teppismo di un segnico interpretato che ha interrotto il “tempo del prima” nella sua infinita e tesa abbondanza di significato potenziale. Si può illuminare con un esempio letterario quanto poco sopra illustrato avvalendosi de Le notti bianche di Dostoevskij (2013). Il protagonista anonimo del breve romanzo caratterizzato come “il sognatore”, incontra nelle sue peregrinazioni notturne dovute ad una persistente agitazione una donna «appoggiata alla ringhiera del canale» (ivi, 2013, p. 10). Il soggetto non ancora parlante, come il sognatore, intuisce in sé la profusione copiosa della semiosi illimitata, il mare agitato delle onde di senso del “tempo del prima”. La notte con Nasten’ka si colora di un proferimento ancora non emesso che, nell’attante impacciato e timido, regala la tangibile speranza di una relazione sentimentale vera, attenta e premurosa. Il “tempo del prima”, del significare innanzi all’astratto ground, s’impadronisce del tendere acquietando una referenza indefinita, ma una forza si sprigiona verso l’esterno e il sussulto arriva indomito con il grido del ritorno del precedente amore della ragazza: “Nasten’ka! Nasten’ka! Sei tu!”. L’incontro è tratto, il ground iconico astratto ha manifestato il suo simbolico differenziale e conveniente senso nel simbolico della parola annunciata. Il “tempo del dopo” ha vinto la sua battaglia e dopo l’asserire temerario, giunge la tristezza dello sguardo del sognatore febbricitante alla Nasten’ka che felice si abbandona al suo precedente amore tenendolo per mano. Nell’esperienza comune, il “tempo del prima e del dopo” si tendono insistenti agguati di senso, ma con l’epilogo, il momento del contenuto proclamato, la parola subodorata lascia il suo proprietario che la guarda correre felice come il sognatore Nasten’ka al termine del romanzo. Le frasi e le argomentazioni si lanciano oltre il soggetto enunciante e non vi fanno più ritorno, come un boomerang danneggiato dalle rovine del senso del dopo. Per ritornare nell’arretramento del “tempo del prima”, bisognerebbe ritessere le trame del comunicare, ma in ciò si misura quel tempo della significazione che è diventato un invecchiare e un puro uso convenzionale e sociale che palesa, tuttavia, una decrepita gobba di ragnatele opache.

Fonti:

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  • Benjamin, W. (1991). Charles Baudelaire. Tableaux parisiens, in Walter Benjamins gesammelte Schriften, Vol. IV-1, Suhrkamp, Frankfurt, pp. 9-21.
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  • Cervantes, M. de (2014). Don Chisciotte della Mancia (Trad. it. di F. Carlesi). Mondadori.
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  • De Saussure, F. (2009). Corso di linguistica generale a cura di T. De Mauro. Laterza.
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  • Dostoevskij, F. (2013). Le notti bianche a cura di G. Spendel. Mondadori.
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  • Heidegger, M. (1994). Nietzsche a cura di F. Volpi. Adelphi Edizioni.
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  • Jakobson, R. (2002). Saggi di linguistica generale a cura di L. Heilmann (Trad. it di L. Heilmann e L. Grassi). Feltrinelli.
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  • Wittgenstein, L. (2009). Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 a cura di A. G. Conte. Einaudi.

Data:

9 Dicembre 2024