Nella lingua inglese è diventato un acronimo: TMI, che sta per “Too much information”. E’ la sindrome di cui soffriamo nell’era dell’abbondanza di dati, resa possibile dalle nuove tecnologie elettroniche, da internet, dalla rete di telefonia cellulare, dai collegamenti domestici in fibra ottica.
Il problema è antico quanto la scrittura: già Platone deplorava il pericolo rappresentato dalla circolazione di testi scritti, che avrebbero ridotto le capacità mnemoniche. Quando si diffuse la stampa, nel 1600, uno scrittore inglese (Barnaby Rich) denunciò come una delle piaghe dell’epoca l’eccessivo numero di libri che avrebbe finito con il confondere , anche perché veicolavano spesso idee contrapposte, il pubblico dei lettori. Oggi abbiamo il paradosso degli studenti detti “nativi digitali”: quanto più bombardati di dati, tanto più incapaci di concentrarsi per analizzarli. Le nuove generazioni stanno diventando incapaci di maneggiare testi complessi, salvo le solite eccezioni. Nelle università USA, afferma il sociologo della conoscenza Frank Ferudi, è ormai quasi impossibile pretendere lo studio di grandi opere classiche, perché voluminose rispetto ai parametri di disponibilità di attenzione degli studenti. E quindi i docenti, rassegnati (quando l’università è a pagamento o si adatta ai bisogni degli studenti o perde clienti), preparano delle sinossi o addirittura riducono i corsi a sequenza di piccole lezioni video, purché divertenti.
Gli studenti USA, infatti, rifiutano programmi che contemplino più di un solo libro di una certa dimensione. Nelle scuole superiori italiani il livello di attenzione è crollato[1]: gli studenti sono più occupati a seguire il gruppo Facebook sullo smartfòn[2] che a seguire la spiegazione. La modificazione è lenta, ma sicura, e visibile solo nel lungo periodo. Così come accade per i tempi di formazione, sempre più lunghi, e con effetti devastanti sia sul reddito vitale (si lavora per meno anni) sia per la demografia (i figli li fanno le donne giovani): in Italia, dal 2021, per accedere all’albo dei Periti Industriali è necessaria la laurea breve: per ottenere lo stesso titolo si è passati (in soli 40 anni) da 5 anni (veri) a 8 anni (al minimo); nel frattempo si sono inventati gli Istituti Tecnici Superiori, aggiungendo i soliti tre anni di studio (questi veri) dopo il diploma.
Dal punto di vista economico di tutta la società, è un gigantesco spreco: 3-5 anni di ulteriore studio, costoso per le famiglie, senza alcun ritorno economico differenziale; e in un contesto dove i 3-5 anni in più non danno diritto a contributi per la pensione[3]. L’eccesso di dati disponibili, per così tante persone, è un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità, e rende sempre più ignoranti persone apparentemente più ricche di informazioni[4].
La soluzione ha a che fare con il sistema economico, che andrebbe modificato per disincentivare il flusso di dati superflui, e con un sistema formativo che va ridisegnato, perché non può competere con il sistema ricreativo amato dagli studenti. Esattamente come l’eccesso di cibo e la mancanza di moto hanno creato l’epidemia mondiale di diabete in corso, così l’eccesso di dati sensoriali e la mancanza di sufficiente tempo di riflessione stanno creando una epidemia di distrazione e incapacità di elaborare idee, filtrare e gerarchizzare i dati per dargli un senso e trasformarli in informazioni.
Questo lavoro di gerarchizzazione è finora stato svolto da libri e insegnanti, da sempre, ma adesso diventa indispensabile persino per l’uomo comune, ma ci sarà qualcuno disposto a pagare perché lo svolga? Anche questo in realtà già avviene da secoli, con libri, giornali, scuole, ma oggi paradossalmente la disponibilità di dati “spazzatura” a costo pressoché nullo soffoca i dati “buoni”, così come la massa di dati “manipolati”, grossolanamente o sottilmente, rende ancora più difficile trovare dati “buoni”. Stiamo avendo una massa “obesa” da dati superflui, e una minoranza (non necessariamente la più intelligente, basta che la famiglia possa permettersi una scuola privata di un certo tipo) che riesce a filtrarli e a elaborarli.
L’informazione cattiva (o più banalmente superflua) scaccia la buona. L’evento della cosiddetta “brexit” (l’uscita del Regno Unito dalla UE28 a seguito dell’esito del referendum del 19 giugno 2016) è stato descritto dai media con un profluvio di dati inutili, e pochissime analisi reali, ma questa sindrome TMI ha avuto effetti reali, con un calo dei valori medi di alcune Borse anche del 10%, quando nessuno (persino il Legislatore che potrebbe elaborare norme per compensare gli effetti economici) ha mutato nulla, nel giorno seguente al referendum.
Esiste quindi una domanda, anche se scarsa rispetto a quella per “informazione immondizia”, di informazione buona, che sarà soddisfatta da libri, scuola, giornali, professionisti. Un problema è che nel mercato reale si rischia che non sia economicamente conveniente produrla. Già oggi vediamo che a fornire informazione ragionata sono in prevalenza i docenti universitari, che abbinano lavoro stabile, ben retribuito, che lascia tempo disponibile; tutte caratteristiche che sarebbero già scomparse se fossero passate anche su di loro le falci di produttività ed efficienza.
Gli scrittori che riescono a vivere esclusivamente con i diritti d’autore sono quelli “ricreativi”. I giornali, per sopravvivere, aggiungono una quantità d’informazione superflua spaventosa. I “think thank” riescono a sopravvivere solo se finanziati da istituzioni e aziende, che paradossalmente sono spesso la fonte dell’informazione superflua, eppur sono costrette a cercare quella “buona”. In questo il web offre possibilità inedite: è oggi il principale generatore e moltiplicatore di informazione superflua ma consente di accedere in modo pressoché istantaneo alla informazione “buona” prodotta in ogni angolo del mondo[5]. Esattamente come un tempo la vera fonte della conoscenza era il bibliotecario che sapeva indicare dove trovare la conoscenza giusta, oggi la vera fonte della conoscenza è il “think thank” (in italiano Centro Studi, o Società di Consulenza) che sappia trovare e raccordare tra loro, in modo sintetico, le conoscenze giuste[6].
Esistono poi il problema delle notizie false (“fake news”), dei contenuti elaborati automaticamente copiando (“intelligenza artificiale”), dei diritti d’autore (se tutti copiano chi paga?”), della chiusura dei giornali (i cui articoli sono copiatissimi, ma non pagati dal pubblico), del crollo nell’acquisto dei libri cartacei (chi scriverà libri senza compenso?), della moltiplicazione dei corsi di laurea e master post -laurea (posticipando ulteriormente la data di ingresso nel mondo del lavoro retribuito). Tutti filoni afferenti al mondo della “troppa informazione” in cui i dati superflui sono “rumore” che copre i dati buoni.
Ormai sappiamo tutto sul conflitto in corso in Palestina, ma niente sui conflitti nel nostri quartiere, soprattutto perché non si parla ma si chatta, non ci sono gruppi di amici ma gruppi uotsapp[7]. Siamo al paradosso che si fanno corsi per astenersi dall’uso dello smatfon e dei social. Anche chi scrive deve imporsi ogni giorno di non perdere ore a compulsare notizie superflue; sicuramente mai come oggi è possibile per ciascuno accedere a un mare di informazioni a costo pressoché nullo, sono disponibili migliaia di libri scaricabili, ma tutta questa bulimia informativa è insensata se non produce informazione, formazione e reddito.
Forse un libro costa di più, richiede ore di applicazione, ma dopo averlo letto forse vi resterà qualcosa. Ore di navigazione sul web non portano altrettanto.
[1] Questo avviene in particolare dove la didattica, per ragioni complesse, non riesce ad esplicare azioni tali da impedire questi comportamenti.
[2] Non è un errore, la scrittura prevalente è “smartphone”, ma per moltissimi vocaboli di fonte straniera in italiano si è adottata la descrizione fonetica,e poiché la regola è “quel che scrivono tutti”, e poiché quel che scrivono tutti qualcuno ha pur dovuto cominciare a farlo, noi preferiamo la trascrizione fonetica.
La scelta ha ragioni anche di efficienza comunicativa: quanto più una lingua scritta è coerentemente fonetica (vale a dire che la scrittura indica il suono al meglio possibile) tanto più semplice è l’apprendimento e potente l’uso: si impara a scrivere in italiano in un anno, in inglese in tre, in cinese in dieci. L’italiano offre un insieme di sfumature enorme, e condivisibile, mentre il cinese può essere scritto in un modo, e letto in tanti modi diversi in zone diverse della Cina; forse c’è una ragione se la Costituzione della Repubblica Popolare Cinese è scritta anche in inglese.
Questo approccio si scontra con l’inerzia dell’abitudine, ma le lingue si modificano in continuazione. L’amplissima diffusione della lingua inglese standard è anche dovuta all’uso di un alfabeto semplice (anche da scrivere; i caratteri aldini sono il massimo della semplicità e chiarezza visiva) e alla disponibilità, per ragioni storiche, di parole che soddisfano alle esigenze moderne del web. Nonostante le ambiguità di scrittura e pronuncia, risolte dai non madrelingua adottando un inglese rudimentalizzato. Con il paradosso che se in un gruppo di europei, di madrelingua differente, che parlano tra loro in inglese si introduce un madrelingua inglese in genere vien compreso solamente se rudimentalizza anch’egli il suo linguaggio.
[3] Oppure può essere visto come un gigantesco trasferimento di fondi dalle famiglie alle aziende, che in questo modo non si fanno carico dei costi di formazione; inoltre aumenta la produttività, realizzando uno dei classici casi di aumento di un parametro, visto come positivo per l’economia, che in realtà non implica aumento del benessere reale, quando non implica una diminuzione.
[4] E fatalmente moltiplica tempi di studio, titoli, diplomi, per ottenere una formazione a volte peggiore; o paradossalmente lo stesso livello di formazione media con un costo per le famiglie molto maggiore. Un MBA alla Bocconi costa 60.000 euro, più la mancanza di reddito per un paio di anni, più le spese. Saranno recuperati?
[5] Anche gli Stati dove il web è controllato o censurato lasciano trapelare qualcosa, probabilmente perché il censore medio non è abbastanza intelligente, perché ovviamente soffre anche lui della sindrome TMI.
[6] Alcuni “nuovi lavori”, come la “business intelligence”, o la “l’analisi di business” sostanzialmente fanno questo. Non vi è spesso originalità, ma appaiono complessi ai più perché il livello medio di comprensione è notevolmente diminuito.
[7]Sappiamo che dovremmo scrivere “whatsapp”, ma preferiamo la scrittura fonetica