A destra del Ppe ci sono movimenti e non possono essere escluse scomposizioni e ricomposizioni dell’assetto politico: lo stesso Van Overtveldt ha sottolineato che, se Fidesz dovesse entrare nei Conservatori, il suo partito se ne andrebbe immediatamente. Potrebbero seguirlo, nel caso, i Veri Finlandesi e l’Ods ceco. Insomma, per il gruppo Ecr accogliere Orban non sarebbe un buon affare. Gli scogli emersi lunedì durante la cena sono principalmente due, come spiega una fonte diplomatica Ue: primo, il Ppe, che ha vinto le elezioni, ha chiesto che il presidente del Consiglio Europeo faccia solo “due anni e mezzo” di mandato, per poi passare la mano e non essere rinnovato, come invece è prassi che accada a metà legislatura. Secondo: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni “non è soddisfatta” dei nomi sul tavolo. L’Italia è un grande Paese, tra i fondatori dell’Ue, e procedere alle nomine contro Roma non è consigliabile: il Consiglio Europeo, anche se su questo può decidere a maggioranza qualificata, cerca sempre trovare il massimo consenso possibile.
Non tira comunque aria, almeno per ora, di un coinvolgimento dell’Ecr nella maggioranza. Sia Donald Tusk, negoziatore delle cariche per il Ppe, sia Olaf Scholz, che tratta per l’S&D, hanno sottolineato pubblicamente l’autosufficienza numerica della maggioranza uscita dalle urne, magari con l’aiuto di altri partiti. “Non è mio compito convincere Meloni”, ha detto secco Tusk. I Verdi sono disponibili ad entrare, come ripetuto dai vertici del gruppo, ma nel Ppe diverse delegazioni sono contrarissime ad allargare la maggioranza agli ecologisti, a partire dagli italiani e dal presidente e capogruppo Weber. I Socialisti, dal canto loro, non vogliono l’Ecr nel perimetro. Le perplessità dell’Italia, stando a quello che ha detto Antonio Tajani, che è vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e vicepresidente del Ppe, non sembrano riguardare von der Leyen, ma più gli altri due nomi sul tavolo, il portoghese Antonio Costa e l’estone Kaja Kallas. Sul primo, un politico che ha sconfitto la Troika mettendo a posto i conti pubblici seguendo una propria ricetta, ci sono riserve anche all’interno del Ppe: alcuni, ha spiegato Tajani, temono che sia poco “fermo” sull’Ucraina; altre fonti citano il tema migrazioni. E poi l’inchiesta che lo ha coinvolto, anche se la sua posizione sembra essere molto migliorata, proietta comunque qualche perplessità, utilizzabile se non altro in chiave strumentale. Il premier portoghese, Luis Montenegro del Psd (gruppo Ppe), ha però chiarito che, se la famiglia socialista appoggerà Costa, lui farà di tutto perché riesca a diventare presidente del Consiglio Europeo.
Se Costa, che però nel Consiglio Europeo gode dell’appoggio di un big come Pedro Sanchez, dovesse cadere, allora i giochi potrebbero riaprirsi e potrebbe entrare in gioco Enrico Letta, per il quale Tajani ha speso pubblicamente parole di apprezzamento, ricordando che viene dalla tradizione democristiana. Per ora sono solo speculazioni e una fonte parlamentare si dice scettica sulle chances dell’ex premier italiano. Certo, se per caso questa ipotesi dovesse tradursi in realtà, si arriverebbe al paradosso di un dirigente del Pd che arriva alla guida dell’Euco anche grazie al centrodestra, quando anni fa non ci riuscì a causa dell’opposizione del capo del suo partito, che non voleva farsi presiedere da lui.
Il Ppe ha vinto le elezioni, è composto da politici consumati e dunque getta sul tavolo due argomenti, probabilmente anche a fini negoziali: il presidente del Consiglio Europeo deve fare solo due anni e mezzo e la presidente del Parlamento Roberta Metsola deve avere altri due mandati. Non solo. Plenkovic ha parlato di una logica complessiva di pacchetto, facendo notare che la presidenza della Bei è andata alla socialista Nadia Calvino, che il segretario generale del Consiglio d’Europa potrebbe essere il liberale Didier Reynders e il il segretario generale della Nato potrebbe essere il liberale Mark Rutte. E i Liberali le elezioni le hanno perse, a differenza del Ppe. Su Kallas, le perplessità non sono solo dell’Italia. Il presidente della Slovacchia, Peter Pellegrini, è parso parlare proprio di lei quando ha detto che chi rappresenta l’Ue a livello internazionale (e quindi l’Alto Rappresentante) deve essere una persona in grado di “calmare le tensioni” in una situazione già “molto tesa”. La Slovacchia confina direttamente con l’Ucraina e vive direttamente i problemi che la guerra scatenata dalla Russia proietta in quell’area. Kallas è estone, quindi naturalmente antirussa: gli estoni hanno provato sulla propria pelle cosa significhi l’imperialismo dell’ingombrante vicino. La premier ne porta le cicatrici nella propria storia familiare. Sua madre, che aveva allora solo sei mesi, sua nonna e la sua bisnonna furono tra le migliaia di persone deportate in Siberia alla fine degli anni Quaranta, per volontà di Yosif Stalin, che voleva spezzare il nazionalismo estone. Suo nonno fu mandato in un gulag siberiano. Insomma, se Kallas è antirussa, ha ottimi motivi per esserlo. Tuttavia l’Italia, che è immersa nel Mediterraneo, vorrebbe che l’Alto Rappresentante, parlando per i 27, prestasse anche attenzione al Medio Oriente e al Nordafrica, non solo all’Ucraina.
Di qui al Consiglio Europeo del 27 e 28 giugno restano una decina di giorni per trovare la quadratura del cerchio e chiudere la partita delle nomine. Malgrado il mancato accordo, i leader sembrano fiduciosi di riuscire a chiudere entro fine mese. Se sul trio di nomine Meloni, che nel Consiglio Europeo è affiancata dal solo Petr Fiala, oltre che da Orban che però spesso gioca per sé e mantiene un atteggiamento transattivo, non ha potuto incidere, potrà però far pesare i suoi voti nel Parlamento Europeo, quando la presidente della Commissione dovrà farsi eleggere. Lì rischia, e il pacchetto di voti che Meloni potrebbe garantirle le farebbe molto comodo: nel 2019 passò con un margine di soli nove voti, grazie ai Cinquestelle .
I segnali che la presidente in carica vuole quei voti si moltiplicano: negli ultimi giorni sono piovute indiscrezioni sul prossimo via libera alle nozze tra Ita e Lufthansa, che per i tempi tecnici non potrà essere ufficializzato molti giorni prima del 4 luglio. Troppo tardi, quindi, poiché il Consiglio Europeo che dovrebbe essere decisivo è il 27-28 giugno. Secondo Politico.eu, inoltre, la presidente avrebbe fatto pressioni per rimandare la pubblicazione del rapporto sullo Stato di diritto, che potrebbe contenere valutazioni critiche sulla libertà dei media in Italia. Non sarebbe una novità: la Commissione von der Leyen, come ha notato l’eurodeputata olandese di Renew Sophie In’t Veld, ha fatto più volte un uso politico della tutela dello Stato di diritto. Basti pensare allo sblocco di miliardi di euro di fondi all’Ungheria alla vigilia di un summit cruciale per l’allargamento all’Ucraina, o all’approvazione del Pnrr della Polonia sulla base degli impegni presi da Donald Tusk, uno dei due sponsor ufficiali nel Ppe della candidatura di von der Leyen. La presidente sa che il voto al Parlamento potrebbe rivelarsi un passaggio rischioso: i franchi tiratori, nel segreto dell’urna, sono di casa a Strasburgo. E lei ha un’occasione sola: o la va o la spacca. I voti che Meloni può garantirle valgono oro. Una fonte parlamentare bene informata, tuttavia, relativizza e invita a prestare attenzione a quello che dirà oggi la Commissione, con il pacchetto di primavera e le procedure per deficit eccessivo che verranno con ogni probabilità annunciate nei confronti di diversi Paesi, incluse Italia e Francia, anche se circolano voci di un rinvio (il portavoce Eric Mamer ha spiegato ieri che, semplicemente, la riunione dei capi di gabinetto che fissa l’agenda del collegio è slittata per motivi tecnici). I rendimenti degli Oat, i titoli di Stato francesi, sono schizzati in alto, con i risultati delle elezioni europee, e di riflesso anche i Btp ne hanno risentito: non a caso Weber ha insistito molto oggi sulla necessità che si mandi un “messaggio di stabilità”. Secondo la fonte, in questa situazione “tutti hanno interesse a votare von der Leyen”, perché, se dovesse venire bocciata in Parlamento, si rischia “il caos”, e i mercati tornerebbero a ballare. Cosa che non è interesse di nessuno, neppure delle destre al governo o che al governo sono vicine ad arrivare. Non a caso giovedì a Lussemburgo, ha spiegato un alto funzionario Ue, gli altri 1
9 ministri della zona euro torneranno alla carica per chiedere al ministro Giancarlo Giorgetti “spiegazioni” su quello che intende fare il governo per ratificare la riforma del Mes, che ha firmato, per poi bocciarla in Parlamento nel dicembre 2023, all’indomani dell’approvazione della riforma del patto di stabilità. Senza il backstop le banche, anche quelle italiane, restano maggiormente esposte agli umori dei mercati finanziari. Umori che possono variare molto, molto rapidamente. —internazionale/esteriwebinfo@adnkronos.com (Web Info)
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