Per gustare un libro occorre avere una predisposizione particolare dell’animo, raccolta e non distratta, attenta anche se propensa a “sentire” -pur per il tramite- al di là delle parole che si stanno leggendo
Il leggere (come lo scrivere) è un atto delicatissimo, frutto di stati d’animo, di volontà, di echi di letture (anche di cinema, teatro, televisione, se è per questo), voglia di provare e riprovare: è un fiore delicato da annaffiare continuamente, anche se il bocciolo a volte ci sembra chiuso.
Recentemente ci si è interrogati su Che cosa vediamo quando leggiamo (Peter Mendelsund, – tit. originale, What We See When We Read -, Mantova, Corraini Edizioni, 2020, pagg. 452, un’ “appassionante conversazione illustrata”, “un viaggio costellato di incipit classici, mappe e citazioni”)
“Nei libri incontriamo personaggi, luoghi, oggetti che ci sembra di conoscere, come se li avessimo davanti: ma li vediamo davvero? Che immagini nascono nella nostra mente quando leggiamo? Da dove vengono e come le creiamo? Sono nitide o confuse? […] che succede nella nostra immaginazione di lettori” quando scorriamo le pagine di un libro? (Dalla quarta di copertina).
“Il lettore appare sovente come una neutra entità che esce dal suo silenzioso ed ottuso isolamento quando si trasforma in quella categoria che si cartellina come homo legens. Si, è vero, il cosiddetto homo legens riesce, in virtù di quel meccanismo che è l’atto della lettura, a decodificare il pensiero di chi racconta (cioè di colui il quale scrive), perché costui cerca di attirare (seppure in una maniera mnemonica) il linguaggio del sapere nell’ambito di una grammatica della memoria che contiene, come ricordava Maurice Blanchot, la possibilità di ‘dire, che dica senza dire l’essere, né d’altra parte negarlo’. 1 [Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», trad. it. di Roberta Ferrara, Torino, Einaudi, 1977, p. 514].
Più chiaramente, allora, si potrebbe ricordare che un lettore o l’interpretante di un testo (per usare una parola cara ad Umberto Eco), 2 [Cfr. Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1991, p. 59 sgg.] dinanzi ad una pagina, pone la sua attenzione verso un centro di gravità nel quale una determinata parola (che in un libro è presente) si colloca in un altrove in cui un processo dello scrivere significa, da una parte (per lo scrittore) parlare, cioè comunicare e, da un’altra parte (per il lettore) l’essere volto a sorprendere quell’espressione che il testo cerca di compiere comunemente.” (Attilio Mauro Caproni, L’atto del leggere. Un metodo della memoria bibliografica,dalla lectio magistralis tenuta all’Università di Roma “Tor Vergata” il 2 maggio 2013).
Molto gioca anche quel che definiamo intuito o intuizione.
Capita allora di allontanarsi un attimo per poi ritornare più consapevoli e con uno sguardo più acuto per guardare ancora più in profondità. Lo stesso accade anche nella visione (successiva) di un film o nell’ascolto di una musica o di una canzone.
Ogni lettore (e scrittore, ognuno in varie misure è anche questo) lo ha. Occorre possedere in una certa misura -per così dire- la “sindrome di Asperger” (cfr. Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson, p. 587).
Agevola questa modalità di lettura anche l’attitudine analitica, che porta inevitabilmente a scoprire meandri di approfondimenti e sentieri interpretativi (anche se è pur vero che alla fine dell’analisi si deve poi necessariamente, dovendo fare il punto, procedere alla riorganizzazione e, dunque, alla sintesi di tutto il materiale rinvenuto).
Ci si ritrova allora ad andare in profondità, aprendo nuovi spunti e aspetti da esplorare, nuove “porte” interpretative.
Anche quando sembra di avere inquadrato il testo, basta rileggere una pagina, una frase, ritornare indietro a quanto letto in precedenza, ed ecco che una nuova luce appare.
È un po’ come accade con quei disegni particolari che dànno luogo a illusioni ottiche: gli stereogrammi. Oltre l’immagine piana bidimensionale si genera infatti una visione di profondità, tridimensionale, esattamente come quando ci si incanta a guardare il vuoto.
È importante dunque la capacità di trovare associazioni, anche non consuete, che si attiva allo stesso modo per altri tipi di arte (come la musica o il cinema, per ritornare agli esempi già fatti). Si riesce allora a rendere chiaro ciò che a volte riusciamo solo a sentire o intuire, formulare in un modo semplice e limpido ciò che già conosciamo o sappiamo, ma non riusciamo a portare alla luce in modo così evidente. È –facendo certo gli opportuni distinguo- come l’opera dello scultore che vede nel blocco di marmo grezzo la sua creazione finita e deve solo liberarla del materiale “superfluo” che la circonda.
Associazione è dunque la nostra “prima parola” da riporre con cura nella “bisaccia” da portare in ogni percorso di lettura: meccanismo (e dono) frutto di uno stato dell’animo e della mente sempre all’erta.
…segue nell’edizione di domani.