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UN VECCHIO GIOCATTOLO

Dentro mi sento giovane e mi considero quello di sempre, eppure… i conti non tornano. Finora potevo imputare i segni del tempo all’insonnia o allo stress. Ora ho capito: si tratta di un processo irreversibile. Al mattino scopro una ruga che prima non c’era, i capelli bianchi si infittiscono, i vestiti diventano troppo stretti e le scarpe troppo corte.

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La comprensione più profonda dello scorrere degli anni è quasi la percezione di una continua privazione. Il tempo sottrae gli attimi migliori della vita, i volti amati, le sicurezze su cui ci si costruisce. Constatare la presenza di una realtà significa già considerare la sua prossima assenza e, nel gioirne, si percepisce già la tristezza della perdita.

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Si fatica a stare al mondo: lo spazio-tempo della vita conosce ormai un vocabolario proprio, che gli viene applicato con pudore e difficoltà, ma che a poco a poco si impone.

Spesso si paragona l’età alle stagioni dell’anno…E’ autunno, del quale scorgo le foglie che cadono; penso alle ore del giorno e allora è il crepuscolo, ma ne colgo solo la malinconia, non il pacifico ricomporsi del creato alle soglie della notte…

Autunno: fuori e dentro di me.

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Dicono che l’autunno è bello, perché è dolce, intimo, pieno di colori forti. E’ vero, ma inesorabilmente parla di tramonto; inevitabilmente spinge a pensare a quella che con parola pietosa si chiama la terza età.

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E’ la vecchiaia, ma è come se si avesse timore a chiamarla con il suo nome, quasi che la “vecchiaia” fosse una parola invereconda. Forse non il nome, ma la vecchiaia è invereconda. Mi chiedo spesso se questa sia la ragione della solitudine degli anziani.

Accade talvolta di ascoltare storie tremende: genitori, con numerosi figli, dimenticati. Nessuno che li vada a trovare, nessuno che si interessi di loro. Oppure figli che litigano per i turni di visita o per quelli di assistenza domiciliare.

Figli che arrivano a farsi pagare l’assistenza. Autorevoli dirigenti e affermati professionisti che, appena passata la festa di saluto per il pensionamento, sono ignorati da tutti, non ricevono più telefonate, non sono più niente per nessuno. La loro casa, fino a ieri insufficiente a contenere le presenze quotidiane di “amici” e “clienti”, diventano improvvisamente silenziose, deserte, immense.

Ascolto sovente anziani che ricordano i giorni dell’affetto, delle tenerezze, del calore delle feste: figli, nipoti, parenti, amici, tutti riuniti a stare insieme, a fare cose insieme; e i pomeriggi passati con la moglie (o con il marito), magari anche solo a passeggiare, a vedere vetrine. Ora, intorno, non c’è che durezza, assenza, fretta, sopportazione. Gli amici sono spariti.

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Affiorano alla mia mente le considerazioni di mia madre durante i suoi ultimi anni di vita, quando, scuotendo il capo, affermava di “essere in compagnia di tre sorelle”: tristezza, solitudine, paura.

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Credo che la cosa più triste della vecchiaia sia la solitudine o forse il senso dell’abbandono. Sì, l’abbandono ancora più della solitudine, perché l’abbandono è vissuto come una dolorosissima ingiustizia. Perché è vero che spesso gli anziani non sono divertenti, ma quasi sempre lo sono stati. Sono stati divertenti, importanti per qualcuno, o forse per tanti; sono stati attivi, dinamici, moderni, spiritosi; sono state querce dai rami sicuri, hanno amato, sono stati amati, desiderati, stimati. Ora hanno perso tutto questo, ma credevano di avere la garanzia degli affetti più cari e invece perdono anche questi.

Ecco che cos’è l’abbandono. E’ sentirsi un vecchio giocattolo finito in soffitta. Ci sarà forse un ultimo sprazzo di affetto al funerale, qualche lacrima e un sospiro: “sì, era vecchio, è la ruota della vita!”

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La profonda ingiustizia consiste nel decretare la morte dei sentimenti prima della morte biologica.

Chi pronuncia questa sentenza non sempre si rende conto del dramma che provoca. Talvolta ci sono anziani che passano la giornata a spiare se figli o nipoti – che magari abitano un piano di sopra o sotto della stessa casa – si affaccino al balcone o diano qualche segno di interesse. E poi chiudono malinconicamente la finestra della speranza.

Qualche riflessione ancora.

La prima è che presto, forse assai più presto di quanto crediamo, arriverà anche per noi l’ottobre della vita. E guai a noi se, assieme alla solitudine e all’abbandono, dovremo fare i conti con il rimorso di aver trascurato o addirittura abbandonato , a maggio, la gente di ottobre.

Subito dopo, dovremmo esaminarci sulla nostra capacità di amare. Se amiamo solo ciò che è amabile, o solo quando è amabile, forse noi stessi, spesso, non avremmo diritto all’amore, specialmente “lassù dove sempre e comunque Qualcuno ci ama”.

E poi che cosa è “amabile”? Solo ciò che piace, che diverte, che arricchisce, che premia, che ricambia?

Auguriamoci di imparare per tempo il valore della gratuità: saper scoprire un tesoro nascosto anche in un volto di vecchio.

Un ringraziamento particolare a chi ha realizzato le immagini a corredo del mio articolo: il fotografo Antonino Orlando, professionista premiato in diverse mostre, anche internazionali.

Data:

26 Ottobre 2022