La lotta interna per il potere in Sudan, che ormai devasta il paese dallo scorso aprile, ha una sola tragica appendice: l’afflizione della popolazione civile che sta soffrendo in maniera disumana. Sono già oltre 1 milione le persone che sono state costrette ad abbandonare le loro case, ammesso che così possano definirsi, per cercare “speranza” nei paesi confinanti, in particolare nel Sud Sudan. Tutte le associazioni umanitarie stanno lavorando in maniera operosa, ma serve di più. Soprattutto serve denaro, per sostenere un ulteriore milione e ottocentomila di persone in fuga che si stima possa scappare da questo terribile conflitto, per affollare i cinque paesi confinanti che già versano in condizioni disperate per conto proprio. Il fatto che Eritrea o Etiopia possano rappresentare una speranza, ci deve far riflettere sul limite e sul grado di disperazione di questa gente. Secondo l’appello lanciato dalla UNHCR, agenzia Onu per i Rifugiati, occorre un finanziamento per un miliardo di dollari, cifra che purtroppo è raddoppiata rispetto alle previsioni effettuate nello scorso maggio, in quanto “gli sfollati e le loro necessità continuano ad aumentare”.
La situazione che queste persone si trovano ad affrontare è purtroppo altrettanto disperata, “a causa dei servizi inadeguati, delle infrastrutture insufficienti e deli accessi limitati” nei paesi di arrivo, ha affermato Mamadou Dian Balde, direttore dell’Ufficio Regionale dell’UNHCR per l’Est e il Corno d’Africa e i Grandi Laghi, nonché coordinatore regionale per i Rifugiati per la crisi in Sudan. Negli Stati di accoglienza temporanea, infatti, si registrano “alti tassi di malnutrizione, epidemie di colera e morbillo” con conseguenti decessi, si legge nel comunicato dell’agenzia. Paesi che comunque, a fronte della loro già grave povertà, “continuano a mostrare grande generosità”. Tuttavia, nonostante questo encomiabile spirito, “non possiamo dare per scontata la loro ospitalità”, ha proseguito Balde: “la comunità internazionale deve dimostrare solidarietà con i governi e le comunità ospitanti ed affrontare il problema persistente del sotto finanziamento delle operazioni umanitarie”, tutto questo “in attesa di una pace più che necessaria”. Gli scontri tra l’esercito regolare, facente capo al generale Abdel Fattah al-Burhan e il suo vice, generale Mohamed Hmdan Dagalo a capo delle milizie Rsf (Rapid Support Forces), nel frattempo, imperversano. Fonti locali riferiscono che nello scorso fine settimana sono morti altri 25 civili.
Nel Darfur, una delle più note province del Sudan, situata nella parte occidentale, intere città sono state rase al suolo. Manca il cibo, manca l’acqua, gli ospedali sono senza medicine, finanche senza corrente elettrica. I cadaveri giacciono per le strade, chi può fornisce loro sepoltura in maniera autonoma, sempre che non venga colpito da qualche proiettile sparato dai combattenti che cercano solo un pretesto per uccidere. Proprio l’esercito è incriminato di compiere atroci violenze, anche sessuali: nei loro confronti si è aperto un numero crescente di accuse di stupro. Onye Nkuzi, commentatore nigeriano ripreso dalla stampa francese, constatava con amarezza in un post su X (ex Twitter) che, per l’Occidente, soltanto l’Ucraina costituisca “una priorità”, mentre la guerra dei capi militari in Sudan non trova spazio sulle loro testate. Pierre Haski, in un articolo su France Inter, sottolineava il grido dell’UNHCR che a stento è riuscita a racimolare appena il 20% dei finanziamenti richiesti/necessari. “Per l’Ucraina il denaro non manca”, rappresentava Haski in una riflessione, mentre “un conflitto invisibile come quello in Sudan subisce la doppia pena”.