Si è recentemente aperto negli Usa, quello che si prevede possa essere il più colossale processo per violazione delle regole sulla concorrenza nell’era digitale. In una corte distrettuale della capitale di Washington è infatti cominciata la causa avviata nel 2020 dal governo americano nei confronti di Google.
Nonostante Google sia da anni entrato a far parte della vita e dell’immaginario collettivo di tutti gli utenti, indissolubilmente legandosi al termine “motore di ricerca”, per l’amministrazione Biden il colosso di Mountain View violerebbe sistematicamente le norme federali sui monopoli. Di conseguenza, nelle prossime dieci settimane, avvocati federali e procuratori generali degli Stati cercheranno di dimostrare che Google ha distorto il mercato a proprio vantaggio, imponendo il suo motore di ricerca come opzione predefinita in una miriade di ambienti digitali e dispositivi. Quasi tre anni di istruttoria nei quali le parti hanno prodotto 5 milioni di pagine di documenti e messo in campo circa 150 testimoni. La causa si concentra su due accuse di violazione dello Sherman Act, la più antica legge antitrust degli Stati Uniti.
In merito alla prima accusa, si afferma che Google avrebbe illegalmente escluso i suoi concorrenti condividendo i ricavi pubblicitari con aziende produttrici di smartphone come Apple e Samsung, sviluppatori di browser come Mozilla e operatori wireless come Verizon e AT&T, in cambio dell’essere designato come provider di ricerca predefinito sui loro dispositivi. Nella seconda accusa dello Sherman Act, una coalizione di stati guidati da Colorado e Tennessee accuserebbero Google di ritardare ingiustamente il supporto ai motori di ricerca concorrenti tramite SA360, uno strumento per gli inserzionisti. Il giudice distrettuale statunitense Amit Mehta, nominato da Barack Obama nel 2014, non dovrebbe emettere una sentenza prima dell’inizio del prossimo anno. Se la corte stabilirà che Google ha violato la legge, un secondo processo deciderà quali misure dovranno essere adottate per limitare le attività dell’azienda di Mountain View. Questo caso ricorda in qualche modo la storica controversia presentata contro Microsoft nel 1998. Infatti, all’epoca fu proprio il colosso di Redmond ad essere al centro delle accuse delle autorità, che accusavano l’azienda di costringere tutti i produttori di computer che utilizzavano il loro sistema operativo principale, Windows, ad includere di default Internet Explorer, quando Internet stava iniziando a diffondersi.
Questa pratica di “bundling” (ovvero vendere due prodotti insieme ad un prezzo molto più vantaggioso del normale), danneggiò significativamente la concorrenza, in particolare il browser Netscape, e Microsoft fu costretta a smettere di utilizzare questa strategia. Non è quindi una coincidenza che vari membri del Dipartimento di Giustizia coinvolti nel caso Google, inclusa Kenneth Dintzer, avessero già lavorato nell’indagine su Microsoft. Google ha però impegnato centinaia di dipendenti nella causa, ha commissionato i servizi di tre rinomati studi legali, ha avuto successo nel suo tentativo di evitare che il processo fosse trasmesso e ha cercato di respingere il principale accusatore, Jonathan Kanter, responsabile antitrust del ministero della Giustizia, sostenendo che avesse pregiudizi a causa del suo precedente lavoro come avvocato per Microsoft. Nella migliore delle ipotesi, una vittoria per Google sarebbe rappresentata da una sentenza in cui viene stabilito che le tattiche contestate hanno rafforzato la concorrenza invece di indebolirla. Kent Walker, presidente di Google per gli affari globali, ha inoltre affermato: “La gente non usa Google perché è costretta, ma perché lo vuole. Il nostro successo è duramente combattuto ed è il risultato della nostra attenzione a costruire servizi che aiutano gli americani ogni giorno”. Tuttavia, fino a quando il giudice Amit Mehta non pronuncerà la sua decisione, il mondo rimarrà in attesa del verdetto finale in questo processo cruciale.